COMITATO POLITICO NAZIONALE – 17 GIUGNO 2006
DOCUMENTO DELL’AREA DEL PRC “ESSERE COMUNISTI”
1. Al centro dell’odierna discussione politica sta, come è a tutti evidente, la qualità e il segno dell’azione di governo e, in questo contesto, il ruolo del Prc. In proposito, va lanciato un allarme per l’orientamento complessivamente moderato del nuovo governo e per la situazione preoccupante in cui versa il nostro partito.
Rifondazione comunista ha assicurato un contributo generoso e leale per la sconfitta delle destre e l’inaugurazione di un’alternativa alle loro politiche antipopolari: tale sforzo unitario era fortemente richiesto dall’urgenza di rispondere alla grave involuzione delle condizioni sociali di una grande parte del nostro Paese – a fronte del costante incremento di rendite e profitti – e dall’intollerabilità della prospettiva di una vittoria elettorale di Berlusconi, artefice col suo governo dell’acuirsi di tale divaricazione di classe, oltre che della partecipazione italiana alla guerra americana in Iraq. Oggi, dobbiamo constatare che il profilo incerto e i contraddittori segnali già palesatisi nel corso della campagna elettorale del centro-sinistra – elementi che, a nostro giudizio, hanno determinato una proposta politico-programmatica inadeguata contro la quale ci siamo pronunciati – tornano ad appesantire i primi passi del nuovo esecutivo. Abbiamo sin dall’inizio sottolineato la necessità di procedere da subito ad atti di governo che dessero la concreta percezione di una svolta, incontrando le aspettative della maggioranza degli italiani su due questioni di fondo: l’aspirazione alla pace e una decisa promozione dei principi di equità sociale. Su entrambi i suddetti versanti, le battute d’esordio risultano ad oggi del tutto insoddisfacenti e le dichiarazioni di intenti di autorevoli esponenti della compagine governativa sembrano andare addirittura nella direzione opposta.
2. Sulla politica interna, preoccupante è apparsa la linea di ragionamento del ministro dell’Economia, il quale – in contrasto con lo stesso testo programmatico, ma in sintonia con le aspettative di Confindustria e, più in generale, con i dettami liberisti dell’Unione europea e del patto di stabilità – ha rilasciato interviste in cui è rilegittimata nella sostanza l’ispirazione della famigerata politica “dei due tempi”, già praticata con esiti disastrosi dal precedente governo di centro-sinistra: sacrifici sicuri nell’immediato e provvidenze per redditi da lavoro e spese sociali dislocate in un futuro incerto nonché affidate, dal lato delle entrate, a provvedimenti ancora in fase di definizione. Tale ispirazione di fondo rende indigeribile l’annuncio della cosiddetta “manovrina”, dettata dall’imperativo di riportare il deficit pubblico sotto il 3%. Non è evidentemente in questione l’esigenza di razionalizzare la finanza pubblica, prostrata peraltro da un quinquennio di generose regalie a vantaggio della speculazione finanziaria e immobiliare. Tuttavia l’enfasi sul “risanamento” economico e sull’esigenza di rigore nei conti dello Stato non è mai politicamente neutra: anche in questo caso l’abbiamo vista tradursi in un’irricevibile richiesta di “moderazione salariale” e nel profilarsi di contenimenti di spesa in ambiti socialmente vitali quali il budget sanitario e quello previdenziale. La recente querelle sviluppatasi in quest’ultimo delicatissimo settore è per molti versi emblematica. Contestualmente alla rivisitazione – nei termini di un approccio graduale – del cosiddetto “scalone” con cui il centro-destra aveva già predisposto per il 2008 l’innalzamento dell’età di maturazione del diritto alla pensione di anzianità (da 57 a 60 anni), si è arrivati in aggiunta a ipotizzare il ritocco dell’età pensionabile delle donne (da 60 a 62/63 anni) per il conseguimento della pensione di vecchiaia. L’immediata reazione dei sindacati ha determinato sul punto in questione una rapida retromarcia.
3. Ma è nel complesso delle tematiche concernenti il mondo del lavoro e del non lavoro che abbiamo assistito all’evidenziarsi, nel cuore stesso della coalizione di governo, di resistenze e forti pressioni involutive, che fanno fare passi indietro anche rispetto alla lettera del programma elettorale. Per rendersene conto è sufficiente porre mente all’obiettivo prioritario della lotta alla precarietà, così come è delineato nel testo programmatico, e confrontarlo con le ricorrenti interpretazioni riduttive dell’impegno a “superare” la legge 30, prepotentemente sollecitate dal mondo industriale. In definitiva, al di là delle sortite giornalistiche e delle successive rettifiche o smentite, resta la viva percezione di un inizio – nel migliore dei casi – contraddittorio e ambiguo, pesantemente segnato dal ricatto della parte moderata dell’Ulivo, complessivamente lontano dagli impegni assunti in vista di una decisa inversione di marcia, nella distribuzione del reddito (a favore di salari e pensioni) e nell’offerta di occupazione buona e stabile.
A rendere ancor più preoccupante il quadro suddetto vi è poi la sequela di episodi che hanno configurato un vero e proprio tentativo di sterilizzare, all’interno del governo, l’azione delle forze della sinistra di alternativa e, in particolare, di Rifondazione Comunista. Non abbiamo mai pensato che la partita fosse facile. Tuttavia, non possiamo non registrare quella che appare come una vera e propria azione di sbarramento nei confronti delle istanze da noi rappresentate e di preventivo annichilimento della collegialità. In tal senso, appare grave e lesivo di una proficua dialettica tra forze di governo, l’episodio che ha visto quale vittima istituzionale designata la compagna Menapace: strappo tanto più grave in quanto prefigura il costituirsi di maggioranze bipartisan e l’accettazione delle loro improprie imposizioni.
4. Sul fronte (mai termine fu purtroppo più adeguato) della politica estera, ove campeggiano la questione irachena e – sempre di più – quella afghana, il governo è chiamato a sostenere una ravvicinata e delicata verifica parlamentare. Per quanto attiene alla prima drammatica vicenda, è stato annunciato il ritiro integrale dei soldati italiani; e questa è, come tale, una buona notizia. Non è dato, tuttavia, sapere la data di tale ritiro: e questa non è una buona notizia. Non si capisce infatti perché, quanto ai tempi tecnici delle operazioni di ritiro delle truppe, si dovrebbe restare ad una formula generica – del tipo “entro l’anno” – quando sappiamo per certo, da fonte militare, che i suddetti tempi tecnici per riportare a casa i soldati italiani in adeguate condizioni di sicurezza si traducono in tre-quattro settimane. Ciò vuol dire che tutto potrebbe risolversi “prima dell’estate”. Al contrario, annunciare il ritiro e poi rimanere per un tempo ulteriore e indefinito sul teatro bellico iracheno, oltre a confermare la volontà di non marcare alcuna discontinuità con la politica Usa, espone a nuovi e sempre maggiori rischi il contingente militare. Per questo occorre continuare a operare una forte pressione politica affinché il ritiro dall’Iraq sia davvero immediato.
5. Ma è sulla vicenda afghana che vanno addensandosi le maggiori difficoltà. Nel merito è bene fare due precisazioni. In primo luogo, va considerato che il Prc – e in generale le forze della sinistra di alternativa – hanno sin dall’inizio manifestato la loro netta opposizione all’intervento bellico in Afghanistan, concepito e attuato dagli Stati Uniti all’indomani dell’11 settembre 2001 nel quadro di una planetaria “lotta al terrorismo”. Così come non abbiamo mai creduto che fosse possibile “esportare la democrazia”, men che meno con le bombe, allo stesso modo non abbiamo mai creduto che devastando un Paese con un’aggressione bellica si eserciti un’efficace azione di contrasto nei confronti del terrorismo. In aggiunta, abbiamo sin dall’inizio e a ragione diffidato delle motivazioni ufficialmente addotte per le suddette imprese belliche, essendo i piani della cosiddetta “guerra preventiva e permanente” predisposti in documenti ufficiali del Pentagono ben prima dell’11 settembre 2001, espressione della vocazione espansionista e imperialista dell’establishment statunitense. In secondo luogo, va osservato che l’Afghanistan costituisce un teatro di guerra altrettanto insidioso e forse ancor più insidioso di quanto non sia l’Iraq. Oggi, assistiamo ad un esponenziale inasprimento delle azioni contro l’occupante, nel momento stesso in cui è previsto un massiccio dispiegamento di truppe Nato in direzione delle province meridionali. Si profila dunque un nuovo escalation bellico nel quadro di un Paese già devastato e stremato, per il quale è di fatto fuori luogo e assolutamente ipocrita parlare oggi di “ricostruzione civile”.
Il Prc ha sempre e ripetutamente votato contro il finanziamento della missione afghana. Ed ora, per come si configura, non è votabile un suo rifinanziamento: su questo concordiamo con le limpide argomentazioni proposte nell’appello di Ciotti, Dell’Olio, Strada e Zanotelli. Non si può votare a favore o contro, a seconda che si stia o meno al governo. A maggior ragione, siamo radicalmente contrari ad un ampliamento, in uomini e mezzi, della missione militare medesima. Detto questo, non siamo indifferenti agli esiti della discussione parlamentare e al conseguimento di un risultato più avanzato, che possa andare nella direzione di un disimpegno. E tanto meno possiamo dirci insensibili alla questione del governo: è evidente che l’opinione radicalmente contraria all’avventura afghana non equivale affatto ad un intento distruttivo che contempli la caduta del governo. In assenza di una soluzione condivisa, occorre segnalare l’impasse con estrema chiarezza al capo dell’esecutivo, chiedendogli di farsi carico della difficoltà: poiché tale difficoltà non può essere scaricata su chi nel merito ha sempre manifestato con nettezza la propria opinione e non intende recedere da alcune posizioni di principio in materia di pace e guerra.
6. Politiche di pace e per l’equità sociale: questi i due banchi di prova per il governo di alternativa alle destre e per il Prc. Su questi due versanti il nostro partito è chiamato a misurarsi e a corrispondere alle attese suscitate dall’insediamento di un governo che vede la presenza di ministri comunisti. Dobbiamo farlo all’indomani di un risultato nelle elezioni amministrative complessivamente negativo e deludente. Si tratta di un campanello d’allarme cui va prestato il massimo d’attenzione, poiché dall’efficacia dell’azione di Rifondazione comunista, dalla sua capacità di insediamento sociale e territoriale e – restando inalterate le nostre critiche e perplessità per quel che riguarda la sezione italiana della Sinistra europea – dal contributo dell’intera sinistra di alternativa dipende in grande parte la possibilità di un avanzamento del nostro Paese nella direzione della giustizia sociale e della pace. Tuttavia occorre con urgenza un cambio di passo nella dialettica interna al partito che, a tutt’oggi, non è dato ancora di vedere. Solo dal nostro rafforzamento organizzativo e dalla nostra tenuta solidale – oltre che, evidentemente, da una giusta politica – può scaturire la capacità di una forte proiezione esterna, a supporto delle ricorrenti impegnative scadenze: nell’immediato, la campagna referendaria sulla controriforma istituzionale delle destre (già oggi in colpevole ritardo) e la raccolta di firme per il referendum sulla scala mobile. Accanto, ovviamente, al perdurante impegno all’interno del movimento contro la guerra. Sappiamo bene che l’azione parlamentare può spuntare dei risultati solo se è supportata dalla spinta di un partito che sappia stare nella società. Per questo, impegno prioritario, urgente e unitario per tutto il partito – al di là delle diversità manifestatesi nell’ultimo congresso – è la costruzione, assieme alle altre forze della sinistra di alternativa, di movimenti di lotta nella società.
Claudio Grassi
Bianca Bracci Torsi
Alberto Burgio
Maria Campese
Bruno Casati
Gianluigi Pegolo
Bruno Steri