Vorrei anch’io intervenire, in premessa, sull’analisi della fase e in particolare della crisi economica, perché confesso che non sono persuaso che le cose stiano esattamente nei termini in cui sono state decritte in questa nostra riunione. Non mi pare cioè sufficiente ed esaustiva un’analisi che descrive la crisi essenzialmente come la conseguenza dell’esplosione del sistema finanziario nord-americano o, tutt’al più, come il fallimento del ciclo trentennale del neo-liberismo. È vero: abbiamo di fronte a noi il fallimento di un intero ciclo di politiche economiche di compressione salariale (perché alla base dell’esplosione della bolla speculativa sta quella pratica dell’indebitamento di massa che a sua volta ha radice nella povertà epidemica dovuta all’abbassamento costante dei salari operai), ma abbiamo di fronte anche qualcosa di più profondo e cioè l’aporia di un sistema capitalistico che, in quanto tale, entra in contraddizione con se stesso, va in sovrapproduzione e, per incrementare l’estorsione di plusvalore, comprime i salari al punto da rendere il mercato dei beni di consumo inaccessibile a settori sempre più crescenti di società. Ed è importante riconoscere il carattere strutturale e sistemico di questa crisi appunto perché altrimenti saremmo indotti a ritenere superfluo (quando invece è quanto mai attuale e impellente) il superamento del capitalismo e quindi a considerare sufficienti alcuni aggiustamenti congiunturali (come gli interventi statali) volti a ridurre il danno.
Sul contesto nel quale ci muoviamo e sulla linea politica del partito.
Il dato politico più rilevante è che in questi mesi abbiamo assistito e stiamo assistendo allo svilupparsi di importanti movimenti e mobilitazioni nella società.
Traggo, dalla cronaca di questi mesi, essenzialmente due lezioni.
La prima. Il nostro partito sta pagando, nel rapporto con i movimenti, il prezzo salatissimo di una partecipazione al governo che ormai tutti riconosciamo come fallimentare. Stiamo pagando, ancora oggi, la scelta governista del congresso di Venezia che ci collocò, agli occhi di tutti e in primis dei nostri riferimenti sociali, dentro le giunte e i governi e fuori dalla società e dai movimenti. Il punto è che però molto dipende – io credo – anche dall’approccio con cui decidiamo di interloquire con i movimenti. Su questo la penso esattamente come Loredana Fraleone: il partito è un soggetto democratico con una propria struttura centrale e una propria presenza territoriale. Nelle sue sedi esso elabora (perché ciò è garanzia di democraticità) una propria linea politica che offre come contributo propositivo ai movimenti. Riconosce a questi quindi, come è ovvio, piena autonomia, ma al contempo non cede alcuna sovranità, non avoca a nessun soggetto esterno la definizione della propria posizione e della propria proposta politica. È quello che abbiamo fatto in tutti questi anni e, anche come giovani comunisti, in molte realtà in questi mesi di mobilitazione generale.
La seconda lezione che traggo è che questi conflitti, nella scuola come nel mondo del lavoro, sono essenziali perché si producano, nella Cgil e nel Pd, contraddizioni e smottamenti. Che sono interessanti nella misura in cui siamo però in grado di relazionarci con essi con equilibrio e autonomia.
Da qui a parlare, come ha fatto Valentini, della necessità di costruire subito una «coalizione riformista che faccia accordi da qui alle politiche» ce ne passa! Perché questo è un approccio che dimentica nientemeno che la storia di Rifondazione, il suo essere un partito di classe strategicamente autonomo dalle forze della sinistra moderata. È un approccio – mi si consenta la brutalità – nei fatti subalterno.
Subalterno tanto quanto le ripetute sollecitazioni fatte a D’Alema affinché rompa con il Pd e dia vita ad un nuovo partito della sinistra socialista.
Ma queste sollecitazioni, che albergano nel campo della sinistra alternativa e anche nel nostro partito, sono incompatibili con le ragioni fondanti della Rifondazione Comunista, implicano un progetto politico che non condivido e che sento come radicalmente diverso dal mio.
E qual è il progetto politico? Basta leggere i giornali di questi giorni, al netto delle scaramucce tra Vendola e Fava: è la costruzione di quello stesso partito della sinistra socialista a cui si vorrebbe anche D’Alema, in prospettiva, partecipasse. E che oggi, non potendo spaccare il Pd, ci si accontenterebbe di costruire in proprio, mettendo insieme le tante debolezze della sinistra italiana.
Io penso che due elementi raccontino bene il segno di questo progetto politico. Il primo mette in chiaro il profilo ideologico dell’impresa e riguarda noi giovani comunisti e in particolare la proposta, avanzata dal nostro esecutivo nazionale, di raffigurare sulla nostra nuova tessera il crollo del muro di Berlino. Ecco, voglio dire con molta nettezza ai compagni che sono intervenuti su questo punto: qui nessuno difende il socialismo dell’est e i suoi regimi o rimpiange il muro di Berlino. Il punto è, semplicemente, che non è ammissibile né accettabile assumere come nostro riferimento identitario l’icona della sconfitta e il simbolo dell’anticomunismo, e cioè appunto la caduta del muro di Berlino, un evento che ci veniva presentato (da Fukuyama come da Occhetto) come l’incipit di un’epoca di pace e prosperità e che invece ha corrisposto drammaticamente all’affermazione del capitalismo, della guerra e della miseria!
Il secondo elemento riguarda le elezioni amministrative. Una parte dei compagni propone di presentare, al posto delle liste di Rifondazione, liste unitaria delle forze della sinistra. E rivendica questa proposta impugnando lo statuto e la sovranità riconosciuta ai territori. Ma qui, cari compagni, non siamo di fronte a scelte territoriali autonome, a istanze nate in alcune federazioni per rispondere a specifiche ed eccezionali condizioni locali, ma ad un progetto politico centrale che si irradia a raggiera sui territori e che – lo ripeto – è alternativo e incompatibile (appunto perché elettoralmente concorrente) con il progetto della rifondazione comunista.
Qui si colloca – e concludo – la questione del nostro giornale e la mia contrarietà alla linea politica (più che linea editoriale) assunta da Liberazione e dal suo direttore.
Da mesi abbiamo concentrato le nostre discussioni in Direzione, con grande senso di responsabilità, sullo stato economico del giornale, imponendoci come criterio regolatore quello di non confondere giudizio politico e analisi dei conti. Il giornale andava risanato e soltanto una volta approntato un piano di rilancio editoriale che lo avrebbe messo in salvo sul piano economico avremmo affrontato i nodi di linea politica. Su questo punto, penso che siamo vicini alla soluzione, nel senso che l’editore, e cioè il partito, a breve si esprimerà sulla proposta di rilancio avanzata dal CdA. E, conti alla mano, verificherà che essa non risponde all’esigenza di pareggio di bilancio posta imprescindibilmente dalla Direzione nazionale.
Ora il problema è tutto politico. E io lo pongo – come già hanno fatto altri compagni – in maniera categorica: Liberazione è il megafono di un altro progetto politico che ieri ha dettato i tempi della sua costituzione in partito. Di un soggetto politico la cui linea è inevitabilmente, e ogni giorno, in contrasto e in distonia con la nostra. E dire questo, cara Gagliardi, non è un’accusa ma la pura e semplice constatazione dei fatti! Questa è la contraddizione di fondo che si può sciogliere (e si deve sciogliere, dato che non si può chiedere ad un partito di rinunciare al più importante dei suoi mezzi di informazione) soltanto cambiando linea editoriale. Per questo auspico che da questo comitato politico esca un indirizzo chiaro rispetto a cui la Direzione possa agire, in tempi rapidi, in conseguenza e in coerenza.
Infine, vorrei rassicurare Piero Sansonetti. Qui nessuno di noi rinuncerà alla tessera dei Giovani Comunisti. Oltre alla sua – che quest’oggi ha chiesto ufficialmente alla nostra portavoce – ci saranno le tessere di migliaia di compagne e compagni che, proprio perché non condividono in nulla il progetto di superamento di Rifondazione Comunista, l’idea di creare un nuovo partito della sinistra e la linea del giornale, contribuiranno ad imprimere, anche nei Giovani Comunisti, una svolta, in bassa a sinistra e – con orgoglio – comunista.