Ieri, nel giorno d’apertura del nostro CPN, abbiamo vissuto una giornata paradossale e surreale.
Quasi tutta la minoranza del CPN è uscita da questa sala per dirigersi ad un’altra assemblea, volta alla costituzione di un altro soggetto politico, di un altro partito.
E oggi, su Liberazione, è enfatizzata in prima pagina l’Assemblea della Costituente di Sinistra nella quale in tanti – anche i nostri? – hanno gridato “ Partito! Partito!”.
L’abbandono dei nostri lavori, le sedie vuote, la fuga silenziosa verso le porte di uscita e il tentativo di svuotare di senso il massimo organo di governo del nostro Partito, operato dalle compagne/i della minoranza, hanno evocato concretamente i momenti più drammatici della storia dei partiti comunisti e di sinistra: le scissioni.
L’argomentazione della compagna Mascia, secondo la quale avrebbe sbagliato il gruppo dirigente del nostro Partito a convocare il CPN nello stesso giorno della loro Assemblea, è apparsa un’argomentazione particolarmente fragile e pretestuosa : è sembrato in verità che nemmeno lei credesse a ciò che stava asserendo.
Il punto è che la grave decisione assunta ieri dalla minoranza altro non è che lo sbocco finale (o intermedio) di una linea politica e di un progetto ostinatamente volto al superamento dell’autonomia comunista e alla dissoluzione del Partito della Rifondazione Comunista.
Cancellare definitivamente in Italia l’esperienza organizzata comunista dal quadro sociale e politico – chiudendo così il cerchio che aveva già aperto Achille Occhetto alla Bolognina – sembra essere divenuto, per i compagni della minoranza, una sorta di azione compulsiva; sembra quasi che non si daranno pace finché non ci saranno riusciti.
Noi sappiamo che non ci riusciranno, poiché tutti noi resisteremo a queste spinte e alle spinte della cultura dominante e della classe dominante volte a cancellare il partito comunista dalla società e dalla politica italiana.
Noi stigmatizziamo severamente il loro comportamento ( di ieri e degli ultimi tempi) e tuttavia tentiamo di capire, capire cioè il fatto che le loro scelte (dal nostro punto di vista nefaste) di oggi non sono che il prodotto finale di un lungo processo di decomunistizzazione portato avanti da Bertinotti e dal suo gruppo dirigente più affine.
I compagni e le compagne della minoranza abbandonano questa sala, abbandonano con un forte e negativo gesto simbolico i lavori di questo CPN, si recano ad un’altra assemblea costituente e poi tornano, e io credo che siano tornati pieni di incertezze tattiche e di divisioni interne.
Fanno un nuovo partito di sinistra, non lo fanno; fanno la scissione, non la fanno; vogliono stare in questo partito, non vogliono starci ; accettano il verdetto democratico di Chianciano, non lo accettano.
Io penso che i loro continui ondeggiamenti, che le loro incertezze amletiche abbiano una base materiale : credo che essi stessi siano consapevoli di non essere dotati di un corredo politico e teorico che permetta il tentativo di un’avventura politica ed elettorale autonoma; credo che anche essi sappiano di non avere un blocco sociale di riferimento, né di simpatie sociali sufficienti, di non avere né un progetto strategico né un’identità forte (questione che rimanda all’impossibilità di una terza via tra radicalità comunista e mediazione socialdemocratica). E il pericolo è – per queste compagne e compagni dal pensiero e dal progetto politico debole – di essere sussunti dal Partito Democratico. Ed è per questo – credo – che la loro analisi sul PD, come si è visto chiaramente dall’intervento del compagno Valentini, diverge tanto dalla nostra.
Noi consideriamo il PD – in questa fase e forse in modo irreversibile – l’altra faccia della medaglia della borghesia. Valentini e altri compagni considerano ancora il PD l’interlocutore principale – politico ed istituzionale – con cui costruire progetti d’alternativa.
E questa giornata si apre con la notizia che la destra propone l’innalzamento pensionistico a 65 anni anche per le donne, con l’on. Lanzillotta – del PD – che approva!
Anche la dialettica lacerante apertasi all’interno del nostro Partito tra i comunisti e l’ala socialdemocratica va contestualizzata all’interno della crisi capitalistica che segna di sé questa fase. Una crisi, dunque e per molti versi, sovraordinatrice.
Una crisi che abbiamo il dovere di decodificare seriamente e senza pressapochismi, poiché da una giusta analisi dobbiamo trarre una linea corretta.
Dal mio modesto punto di vista, nell’analisi di questa crisi si è spesso sfiorata la questione centrale senza però averla ancora messa a fuoco esattamente.
Il punto è che siamo di fronte non tanto ad una generica “globalizzazione”, ma ad una dura e vasta competizione globale, ad uno scontro senza esclusione di colpi tra poli imperialisti e capitalisti mondiali volti alla conquista dei mercati.
E questa frazione egemone del capitale mondiale oggi – come da oltre un ventennio a questa parte – ha in testa una sola idea per vincere la concorrenza: l’abbattimento del costo delle merci. E tale abbattimento il capitale lo persegue in primo luogo attraverso la compressione dei salari, dei diritti e dello stato sociale.
Siamo di fronte, cioè, all’acutizzazione di contraddizioni interimperialistiche, categoria che abbiamo rimosso erroneamente dal nostro lessico politico in conseguenza della cancellazione, nel V congresso del PRC, della nozione dell’imperialismo.
E qui si dimostra che la rimozione di categorie centrali dell’analisi non è pura e astratta accademia, ma segna di sé – negativamente – un intero sistema di pensiero ed una prassi, che da rivoluzionari possono via via divenire riformisti e subordinati al capitale.
Ma questa inclinazione del capitalismo e dell’imperialismo ha prodotto un fenomeno di spoliazione di massa a livello mondiale che è stata la base materiale della ormai profonda crisi di sovrapproduzione capitalistica.
Lo stesso capitale ha dovuto ricorre a mezzi estremi per uscir fuori dalla propria crisi di sovrapproduzione e di sottoconsumo.
Nel 1987 gli Usa hanno tentato di venirne fuori attraverso un titanico keynesismo di guerra : fu la fase dei massicci investimenti per le Guerre Stellari.
Nel 2001 gli Usa tentarono la strada – ancora aperta e teorizzata dal Pentagono – della “Guerra Infinita e Permanente”.
La guerra, con questa crisi profonda del capitale, incombe su di noi, sui popoli di ogni continente, in modo ancor più grave e verosimile di prima.
Tra i compiti primari del nostro Partito vi è quello della rimessa in campo di un forte movimento per la pace. A partire dalla ripresa della lotta contro la Nato e contro la guerra in Afghanistan, questione che sembra dimenticata.
Preoccupante è la spesa militare USA per l’anno fiscale 2008: 1.100 miliardi di dollari; come inquietante è il sistema economico e occupazionale di guerra USA: esso è costituito da circa 30 milioni di occupati: 2 milioni e mezzo nel Dipartimento Difesa; 4 milioni nell’industria bellica; oltre 20 milioni tra i veterani di guerra, che non sono poveri vecchietti, ma donne e uomini pronti al conflitto armato su tutti fronti internazionali.
L’altro strumento per uscire dalla crisi il capitale l’ha tentato attraverso lo spostamento di interesse verso l’ormai temporalmente lunga speculazione finanziaria.
Impressionanti, da questo punto di vista, sono i dati Mediobanca.
Negli ultimi dieci anni, le 2.000 maggiori società italiane hanno aumentato solo di 1,7 miliardi di euro gli investimenti industriali e produttivi e di circa 18 miliardi di euro quelli finanziari, con punte di 34 miliardi di euro in più nel 2000 rispetto al 1990.
Anche sulle politiche di Maastricht dobbiamo avviare un cambiamento radicale. Non solo un NO deciso all’esercito europeo, e cioè NO all’esercito per il neo-imperialismo dell’Unione europea. Ma anche un cambiamento netto delle politiche dei sacrifici popolari per Maastricht.
Dalle maledette “ Leggi Finanziarie d’urto”, varate dai vari governi di centro sinistra, sino all’ultimo di Prodi, è stato avviato un gigantesco trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: si calcola che tra il 1992 ed il 2008 circa 600 mila miliardi di vecchie lire siano uscite dal reddito complessivo del lavoratori (salari, tariffe, ecc.) verso il capitale e verso Maastricht.
Qual è la ricaduta politica di tutto ciò ? Il punto è che in questa fase il capitale – volto ad una lotta feroce di concorrenza – non ha nessuna intenzione di mediare col lavoro, nessuna intenzione di costruire un compromesso col movimento operaio.
Non vi sono cioè spazi oggettivi – oggi – per vie neokeynesiane o socialdemocratiche. E se spazi si apriranno si apriranno solo attraverso le lotte e il mutamento dei rapporti di forza, su scala mondiale e nazionale.
Come dire: persino una via redistributiva, volta all’aumento salariale e alla ricostruzione di un minimo di stato sociale
(condizioni funzionali al superamento della crisi di sovrapproduzione e all’aumento della domanda) dovranno essere conquistati dai lavoratori, e nulla sarà regalato. E questi nuovi spazi potranno aprirsi solo attraverso il conflitto sociale e una risposta di classe alla lotta di classe lanciata da tempo e in modo determinato dai padroni.
Non aver capito la natura di questa fase e l’impossibilità attuale del keynesismo sociale (e non di guerra) ci ha portati dritti dritti nella trappola del governo Prodi e poi alla disfatta storica delle elezioni di aprile.
E’ per questo che noi non possiamo oggi cullarci di nuovo nelle stesse illusioni istituzionaliste che ci hanno portati vicino all’estinzione e alla rottura dei rapporti con la classe e con i movimenti .
E ciò vale sia per il governo centrale che, sia pure su un piano diverso, per gli Enti Locali: spesso vera culla, in questi anni, della nostra involuzione politica e istituzionalista.
Ciò che oggi occorre è rimettere in campo una forte soggettività anticapitalista che punti essenzialmente, attraverso un nuovo e lungo ciclo di lotte sociali, al cambiamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. E tutto ciò non sarà possibile senza la ricostruzione, in parallelo, di un forte sindacalismo di classe.
A questo noi alludiamo quando parliamo di partito comunista, che recuperando lo spirito originario della Rifondazione Comunista – senza nostalgie e senza facili liquidazionismi e nella ricerca politica e teorica aperta – offra di nuovo alla classe un punto di riferimento ed un progetto strategico, che riapra la questione del socialismo.
Da questo punto di vista ho apprezzato la proposta del compagno Ferrero volta a lanciare la parola d’ordine, da far crescere a livello di massa, della nazionalizzazione delle banche e del credito, come misura comprensibile e necessaria per la classe, per le nuove generazioni e per il Paese.
Abbiamo bisogno, cioè, di parole d’ordine chiare e forti, in controtendenza, che mettano al centro la questione della redistribuzione della ricchezza e anche della costruzione del contropotere operaio nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Questione, questa, completamente abbandonata nella fase bertinottiana del nostro Partito, nella quale si tentò – essenzialmente – la costruzione di un partito leaderistico e mediatico.
I referendum sono cose difficili, non possiamo proporli a cuor leggero. Ma potremmo pensare di lanciarne uno o due, di forte impatto sociale: ad esempio sulla scala mobile, o sulla Legge 30, o sulla controriforma Gelmini.
Ma abbiamo bisogno soprattutto di campagne e lavoro di massa, che ci permettano di stare davanti alle fabbriche, ai luoghi di lavoro, alle scuole.
Sul vero e proprio scardinamento reazionario del Contratto nazionale di lavoro abbiamo fatto poco e Liberazione non ci ha certo aiutato. Su questo tema abbiamo bisogno di avviare una vasta, capillare campagna di educazione e di lotta, chiedendo al nostro giornale di esserne il primo vettore.
E debbo dirlo: avrei preferito, su Liberazione, un paginone sul Contratto di lavoro, piuttosto che il paginone di questi giorni su Betti Page, la regina delle pin.up!
Meno incursione nella cultura da rotocalchi e più materialità delle cose! Esattamente tutto quello che non fa più il nostro giornale, divenuto ormai chiaramente l’organo della Costituente di Sinistra.
E’ ora di cambiare. E’ ora di riprendere la strada della rifondazione comunista e della ricostruzione dell’unità delle forze comuniste e anticapitaliste, nello spirito e nella lettera del documento politico di Chianciano.
Quando parliamo dell’unità dei comunisti vi sono alcuni, nel nostro Partito, che arricciano il naso, che fanno di questo progetto una caricatura, trasfigurandolo in un progetto arcaico e ottuso. Non dovremmo nemmeno rispondere a tali accuse. Tuttavia, sappiano tutti che noi, proponendo l’unità dei comunisti, a partire dal PRC e PdCI, col fine di riunificare la vasta diaspora comunista, incrociamo in verità un senso comune diffuso, sia nella base del PRC che in quella del PdCI, oltreché nella diaspora e nell’elettorato comunista. Perché, al di là delle analisi di tanti soloni, questa unità è, semplicemente, una cosa di buon senso, che tutti capiscono e auspicherebbero.
A certe insinuazioni rivolte contro di noi non dovremmo neppure rispondere. Respingiamo caricature interessate e volgari, di chi vorrebbe dipingerci (con analogie peraltro un po’ razziste…) come quelli con l’anello al naso. Lavoriamo per un partito comunista – unito – che rinasca attraverso la riassunzione del migliore spirito originario di Rifondazione Comunista : un partito di lotta, non istituzionalista, non dogmatico, volto alla ricerca politica e teorica aperta. Un partito comunista fortemente democratico al suo interno, capace di avviare un’analisi seria – senza liquidazioni e senza sconti – della storia del movimento comunista del ‘900, all’altezza dei tempi e delle nuove forme del conflitto sociale e di classe, e di problematiche anche inedite. Un Partito comunista autonomo, volto alla costruzione dell’unità della sinistra.
Una forza comunista, dunque: poiché non è certo l’ora (non lo diciamo in senso massimalista, ma perché è lo spirito dei tempi, è la natura dello scontro di classe ad imporlo) di una sinistra vaga, moderata e socialdemocratica.
Così come è stato detto nella relazione introduttiva: davanti e dentro ad ogni fabbrica che licenzia, debbono esserci i comunisti in prima fila, a proporre e lottare.
Per ultimo, vorrei avanzare una specifica proposta operativa: facciamo un manifesto nazionale sulla questione dell’attacco di Brunetta contro le donne, volto ad innalzare l’età pensionabile di tutte le lavoratrici a 65 anni, come se Brunetta non sapesse che in questo mondo così ancora tanto distorto le donne fanno per tutta la vita il doppio lavoro, fabbrica e casa, ufficio e casa.
Facciamo un manifesto nazionale (con la dicitura: buon anno da Brunetta!) con una bella foto di una donna con le borse della spesa, con i figli a fianco, trafelata e incazzata. E propongo altresì che cento donne (dalle grandi personalità alle operaie) lancino un appello contro la proposta Brunetta, un appello sul quale potremmo raccogliere firme nelle piazze, davanti alle fabbriche e nei luoghi di lavoro. Abbiamo bisogno di lavorare per riconquistare il terreno perduto.