Il 25 e 26 giugno abbiamo sconfitto, con una massiccia partecipazione popolare, la riforma costituzionale del centrodestra. Una sconfitta che ha salvato la Carta fondamentale della Repubblica nata dalla Resistenza e, data l’ampiezza delle modifiche messe in cantiere, la natura stessa delle nostre istituzioni, la nostra forma di governo.
A meno di un mese da quella data ritornano in campo i progetti riformatori di quanti, non sufficientemente soddisfatti dell’esito referendario, intendono “migliorare la Costituzione del ‘48”, ponendo le basi per nuove, rischiose e non meno profonde revisioni. Il professor Sartori è tra questi: dopo aver fornito un importante contributo alla battaglia per la bocciatura del pasticcio “riformatore” della destra, è intervenuto sulla materia, in questi ultimi giorni, già due volte.
Appare degno di nota e meritevole di grande attenzione, in particolare, il secondo editoriale, apparso sul Corriere della Sera del 17 luglio, soprattutto per due motivi.
Il primo, di metodo, investe una questione per dir così “epistemologica”: Sartori istituisce un parallelo tra la competenza dei penalisti e dei giusprivatisti e quella dei costituzionalisti, argomentando che, come il Parlamento delega ai primi l’elaborazione di progetti di riforma dei codici penale e civile, allo stesso modo dovrebbe comportarsi per la riforma costituzionale. Ma l’analogia è così stringente come potrebbe, a prima vista, apparire? Si può nutrire qualche dubbio che discende dalla natura peculiare delle costituzioni e quindi dall’altrettanto specifico “statuto epistemologico” del costituzionalismo. Le costituzioni non sono leggi fondamentali solo perché poste alla base degli ordinamenti ma anche perché si collocano in un territorio meta-giuridico nel quale opzioni morali ed orientamenti politici, persino prospettive di interpretazione storica, si fondono con lo specifico giuridico. Non è inoltre superfluo ricordare che il passaggio dalla democrazia formale alla sua applicazione sostanziale è sempre dato dal carattere prescrittivo delle leggi, collocandosi quindi in uno spazio normativo sottratto al filtro delle diverse e mutevoli maggioranze.
Certamente i costituzionalisti sono degli “esperti” ma la loro competenza, cruciale per quanto concerne la coerenza e l’organicità di un testo costituzionale, non è altrettanto fondata per ciò che attiene alla sua dimensione politica, etica, storica e giuridica nelle sue specificità, al di là del livello delle architetture costituzionali.
A questa osservazione di metodo si lega una questione sostanziale che mi pare la sorregga. A riprova del coinvolgimento, in una riforma della Costituzione, di opzioni politiche è significativo che Sartori si riferisca ai “quattro-cinque punti prioritari” su cui gli esperti dovrebbero formulare proposte. È chiaro che l’individuazione di questi punti riflette valutazioni politiche della cui bontà la competenza degli esperti non è sufficiente garanzia.
Una di queste priorità riguarda l’ambito dei poteri del presidente del Consiglio che tanti, tra i quali il professor Sartori (cfr. l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 12 luglio), ritengono necessario accrescere. Si può immaginare una scelta più politica di questa, intorno alla quale ruotano pressoché tutti i progetti riformatori che sono stati avanzati a partire dalla metà degli anni ’80 e che riposano sul primato del “comandamento” determinante della “governabilità”? Davvero le motivazioni per assumerla sono esclusivamente di ordine giuridico? Sartori potrà obiettare che la sua commissione (preclusa – beninteso – ai “partitini”, in ossequio ad una teoria, quella del “taglio delle ali”, e cioè della restrizione del ventaglio degli interessi sociali rappresentati, che è a sua volta un corollario essenziale della dottrina della governabilità) elaborerebbe “una rosa di proposte, anche alternative” sulle quali sarebbe il Parlamento ad essere chiamato, in ultima istanza, a decidere. Ma è evidente che se questa rosa fosse davvero tale sarebbe impossibile elaborare una proposta organica e coerente. D’altra parte che Sartori auspichi l’elaborazione di una proposta organica lo dimostra un’altra sua affermazione, avanzata con la consueta schiettezza: “chi redige un testo ha già vinto a metà.” Appunto: si può “vincere” su un testo che non contenga una proposta ben precisa? E per contro, la posta in gioco in una riforma costituzionale consiglia di fare “vincere” nove pur ottimi “esperti” vagamente somiglianti ad altrettanti “filosofi-re”? Il grave azzardo che corriamo è che, anche per questa via, la tecnocrazia si sovrapponga alla democrazia, rischiando pericolosamente di sostituirvisi.