Un punto di svolta nella storia: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che dà tuttora l’impronta al costituzionalismo. L’impronta è la normatività, sancita nel giustamente famoso articolo 16, che prescrive come devono essere le Carte perché siano appunto costituzionali: «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione». Dunque la costituzione non denota più una qualsiasi organizzazione politica della società, ma implica che alle norme supreme contenute nella Dichiarazione si conformi l’intero ordinamento legislativo. L’importanza primaria della Dichiarazione del 1789 sta nel piegare l’autorità e la forza del soggetto-Stato alle ragioni dei diritti umani. La costituzione diviene un programma che assume efficacia prescrittiva per l’organo legislativo, che subisce una trasformazione profonda nel divenire rappresentante dei cittadini (anche se per un lungo periodo solo di quelli con un certo censo).
E’ questo il cuore dell’ultimo libro di Gianni Ferrara, La Costituzione (Feltrinelli, pp. 266, euro 17), il cui sottotitolo ne indica lo scopo: individuare il passaggio dal pensiero politico alla norma giuridica, il tempo in cui le idee camminano con le gambe delle persone guidandone le azioni di trasformazione rivoluzionaria.
Nell’Illuminismo Ferrara vede la conclusione di una lunga fase di elaborazioni e lotte incubatrici del costituzionalismo, dimostrando coraggio nel rivendicare i meriti di quel movimento messo oggi sotto accusa dal “razionalismo teocratico” di papa Ratzinger. Con quel movimento di idee il costituzionalismo esce dalla minorità e trova i mezzi, intellettuali e pratici, per realizzare una prima vittoria con le rivoluzioni in Francia e nelle colonie inglesi del Nord America: una prima vittoria perché ristretta nell’estensione dei diritti e della partecipazione, escludendo le donne i lavoratori i poveri e i neri, poiché elevava a parametro di essi la proprietà (unica base dell’autonomia della persona). Questa avrebbe aperto un doppio processo di lotta e di rivendicazioni proprio per affermare gli ideali del costituzionalismo: uno nei confronti dello Stato e l’altro nei confronti della base proprietaria.
Ferrara, con nettezza e forse per la prima volta non solo tra i giuristi, afferma che “Stato” e “costituzione” non sono un’endiadi, bensì termini tra loro addirittura opposti tanto che i processi politici moderni, quelli del movimento operaio e democratico, sono protesi a sottomettere il potere dello Stato alle ragioni del costituzionalismo, cioè della libertà e dell’uguaglianza di tutti/e. Ben sappiamo quanto fascino hanno suscitato le teorie assolutistiche dello Stato (anche a sinistra), di Bodin e soprattutto di Hobbes, perché in esse si rispecchia il potere nella sua purezza, come monopolio della forza che si legittima in quanto garanzia di sicurezza e pacificazione civili, e si è visto in questo nucleo di potere l’oggetto del contendere politico e nella forza la condizione necessaria per impossessarsene.
Ferrara richiama con convincente semplicità che lo Stato coincide con il potere del re – due dei quali, Carlo I e Luigi XVI, pagarono con la vita la loro pretesa a conservarne l’assolutezza – e quei due grandi teorici, Bodin e Hobbes, furono attivi interpreti delle sue ragioni schierandosi nelle rispettive patrie con la monarchia, prima forma centralizzata dello Stato moderno. Questo mantiene per secoli i tratti assolutistici attraverso le prerogative regie e la pretesa all’obbedienza alle sue deliberazioni, dato che per spostare all’organo legislativo la competenza sia di emanare le leggi sia di sottoporre al controllo parlamentare l’esecutivo sono occorsi secoli di tempestosi conflitti. Così li sintetizza Ferrara: «Il problema, che non a caso si è voluto definire storico, supponeva una questione di titolarità e si traduceva in termini di rapporti. La titolarità era quella della sovranità, o meglio del principio su cui fondarla, quello dinastico, o quello rappresentativo. …I rapporti erano quelli di potere tra l’esecutivo e il legislativo e più ancora tra la conformazione dell’uno e dell’altro, l’uno concentrato in una persona sola (la Corona), cioè al massimo possibile, e collocato al vertice della piramide istituzionale, l’altro (rappresentanza-parlamento), invece, diffuso in una entità (organo collegiale) a pluralità di corrispondenza variabile, e variata a misura dell’estensione della realtà sociale che in essa poteva esprimersi. Ed era inequivocabilmente proprio la struttura del potere intestato all’esecutivo o al legislativo che faceva la differenza». Intorno a questo nodo Ferrara raccoglie i tanti fili della storia del liberalismo e delle rotture democratiche dell’intero Ottocento, con i loro controversi esiti, quelli che vedono a tratti la rappresentanza conquistare più estese competenze legislative, l’allargamento graduale del suffragio, forme di responsabilità dei governi davanti al parlamento. Il risultato complessivo fu però un liberalismo statalista, con partecipazione limitata dato che la rappresentanza fu monopolizzata dai ceti abbienti e con i diritti altrettanto limitati dal primato della proprietà privata.
Contro la persistenza del Leviatano come regolatore della vita pubblica e sociale si è andato nei secoli forgiando il costituzionalismo, prima con lo scopo di imbrigliarlo e di contenerne gli istinti di dominio, poi di dividerlo fino a volerlo disintegrare. Il costituzionalismo nasce e si sviluppa contro lo Stato, e oggi vive contro le molteplici espressioni del potere pubblico e privato, nazionali e sovranazionali.
L’altro processo di lotta ha visto al centro il conflitto tra diritti e proprietà. In questo ambito Ferrara fa emergere una distinzione netta tra diritti personali e diritti reali, i primi espressivi di una qualità umana, gli altri attinenti a rapporti con cose; i primi, diritti di libertà e uguaglianza di tutti gli esseri umani, i secondi relativi a interessi economici privati ristretti a determinati strati sociali. La presenza nel catalogo dei diritti universali della protezione e dell’esercizio privato della proprietà introduce una frattura, un’asimmetria in quanto viene a decadere la connotazione universalizzante dei diritti umani: questi o sono di tutti/e oppure discriminano in base a criteri che vanno aldilà della qualità fondamentale dell’essere tutti/e umani/e. Insomma il diritto di proprietà non supera il test kantiano della universalizzazione, della possibilità cioè che un diritto sia estensibile a tutto il genere umano. La proprietà dei mezzi di produzione e la loro organizzazione tramite l’impresa implica l’esclusione dei non-proprietari, con ciò perdendo la qualità di diritto soggettivo: «Questa esclusione verrebbe sanata solo se si realizzasse la più estesa diffusione della proprietà dei mezzi di produzione attraverso un azionariato a titolarità esattamente e comunque coincidente, con il numero dei prestatori del lavoro salariato. E coprisse ogni tipo di produzione di beni coinvolgendo ogni impresa». Con questo ragionamento controfattuale Ferrara ripropone come condizione necessaria della libertà eguale il superamento del potere di decisione sulla vita sociale imperniato nella proprietà privata dei mezzi di produzione, con il suo ordinamento gerarchico interno all’impresa e con la stratificazione di classi nella società.
Oggi proprio con questo nucleo duro di potere – l’impresa capitalistica globale – si scontra il costituzionalismo, che conosce regressioni anche sul piano istituzionale a causa di pulsioni plebiscitarie, di spinte verso la personalizzazione del potere e del proliferare di organismi sovranazionali ademocratici. La via rimane però tracciata: frantumare il potere sugli esseri umani e diffonderlo nei diritti di ciascuno/a.