Costituzione, arriva il giorno del giudizio

Il giorno del giudizio è stato fissato. Il 25 giugno si voterà per il referendum costituzionale. Non sarà forse il «giudizio universale», ma poco ci manca. Si giudicherà la Costituzione: il fondamento laico della convivenza tra le persone di una comunità politica. Non dunque un giudizio di dio, ma certamente un giudizio degli umani sulla loro legge «suprema».
Il «verdetto» verrà pronunciato dal popolo stesso (o meglio da quella minoranza che deciderà di partecipare). La decisione sarà senza possibilità di appello, la sovranità popolare in quel momento non potrà essere limitata neppure entro le più controllate modalità di esercizio che la democrazia rappresentativa normalmente assicura. Il «potere costituente del popolo» evocherà la propria onnipotenza; tanto più dirompente perché la manifestazione diretta della volontà popolare ha assunto, questa volta, le forme perverse dell’acclamazione, secondo la peggiore delle indicazioni schmittiane («il popolo può dire in generale solo sì o no», sosteneva Schmitt, sappiamo poi com’è andata a finire).
Tutto ciò rischia di accadere nel disinteresse e nell’inconsapevolezza dei più. Il tema del referendum costituzionale è stato, sino ad ora, ampiamente trascurato, alcuni assorti a discutere del contingente, altri dei fatti propri. Eppure non è difficile comprendere l’importanza della posta in gioco. Non sembra eccessivo affermare che il referendum costituzionale che si terrà tra due mesi avrà un’importanza analoga a quella che assunse, sessant’anni fa, il referendum istituzionale che prescelse per il nostro Paese la forma repubblicana anziché quella monarchica. Anche ora come allora si potrebbe chiudere una storia per dare inizio ad una nuova era. Allora si passò dalla monarchia alla repubblica, ora si vorrebbe traghettare la nostra democrazia costituzionale verso forme oscure di democrazia autoritaria e populista. Secondo i sondaggi questo passaggio d’epoca non ci sarà, si prevede infatti che il referendum avrà esito negativo. Ma chi crede più ai sondaggi?
Vi è di più: dopo il referendum sulla Costituzione, comunque vada a finire, l’Italia sarà diversa. Un’insanabile rottura si determinerà drammaticamente nella sciagurata ipotesi che, nonostante i sondaggi, 52 nuovi articoli dovessero ridisegnare il volto della repubblica. Si tratta di ben più che di un referendum sulla devolution, come molti per ingenuità o per malafede lasciano intendere. L’intero assetto dei poteri perderebbe il suo equilibrio. Verrebbero ad indebolirsi tutte le istituzioni di garanzia: si conserverebbe la figura del presidente della repubblica, ma gli verrebbero sottratti i più rilevanti poteri «neutri» che gli permettono attualmente di esercitare il ruolo di garante politico della Costituzione; parallelamente anche l’accentuazione del ruolo politico della Corte costituzionale finirebbe per comprometterne la specifica funzione di garante giurisdizionale. La maggiore debolezza degli organi di garanzia costituzionale, troverebbe poi il suo perverso compimento nella concentrazione nelle mani del premier di poteri di governo «assoluti»: egli potrebbe non solo revocare i ministri dissenzienti, ma anche sciogliere le camere recalcitranti. Un parlamento, dunque, mortificato, senza più l’autonomia necessaria per poter controllare e bilanciare la forza dell’esecutivo. Una forma di governo «unica al mondo» (Elia).
Anche nell’auspicabile ipotesi che lo stravolgimento costituzionale, temerariamente progettato dal centrodestra, sia respinto nel referendum dal corpo elettorale, si registrerà una decisiva soluzione di continuità. In questo caso, infatti, non verrà solo impedita la sfigurazione della democrazia costituzionale italiana, si porrà anche un argine ad una politica costituzionale di più lunga data. Verrà ostruita quella politica delle grandi riforme costituzionali che, iniziata come una piccola slavina a metà degli anni ’70, è giunta a produrre una creatura orribile raffigurata nell’ultimo progetto di stravolgimento della nostra Costituzione. Al corpo elettorale a giugno verrà chiesto anche di pronunciarsi su questo: se sia giunto il tempo di sottrarsi alla valanga. Solo dopo un referendum che riaffermi il ruolo della nostra Costituzione si potrà legittimamente tornare ad interrogarsi sul valore effettivo del testo costituzionale, per riassegnare alle costituzioni quel carattere di norma “superiore”, che ha permesso in passato di assoggettare i governanti a limiti e ha assicurato ai diritti una loro supremazia sui poteri. Dopo anni di legalità incerta e d’insofferenza nei confronti delle regole (anche di quelle supreme poste in Costituzione) sarebbe questa una “riforma intellettuale e morale” d’enorme significato.
La posta in gioco è dunque la più alta, di peso ben maggiore di una pur importante vittoria politica alle elezioni. Chi ne è consapevole? La disattenzione estrema, prima in campagna elettorale, ora nel dibattito sul nuovo governo, preoccupa non poco. E’ stato necessario attendere il 25 aprile – la Liberazione – perché qualche esponente politico ritenesse opportuno sottolineare l’urgenza di difendere la nostra Costituzione.
Auspichiamoci che non sia solo celebrazione. Dio non voglia ci si debba svegliare un mattino e accorgersi che maledetti sono i sondaggi, ma maledetto è pure un ceto politico tanto impegnato nella legittima battaglia politica da non prestare attenzione al rischio supremo. Perdere il referendum non travolgerebbe solo il governo Prodi e i diversi assetti istituzionali che si vanno faticosamente delineando – dalle presidenze di camera e senato, alla ripartizione delle responsabilità di governo e di sottogoverno, fino alla scelta del capo dello stato – ma travolgerebbe tutto e tutti. In fondo basta poco per evitarlo. Il futuro è nelle nostre mani, ne siamo coscienti?