Così mi hanno torturato in Spagna

Mi hanno arrestata il 29 ottobre, venerdì, alle tre del mattino, mentre ero a casa dei miei genitori. Al momento dell’arresto, i miei genitori erano in casa. hanno colpito la porta, mentre gridavano che era la Guardia Civil e che aprissimo. Mi sono innervosita molto e mi ha preso il panico, così sono corsa nella camera dei miei in cerca di protezione. E’ stata mia madre ad aprire ed immediatamente numerosi agenti della Guardia Civil si sono precipitati all’interno, armi alla mano, puntandole ovunque e chiedendo di me. In quel momento mi sono resa conto che non c’era scampo ed il mondo mi è crollato addosso… mi sono presentata davanti a loro e ho detto che Amaia sono io.

Mi hanno costretto a sedermi su una sedia, nell’ingresso, una donna della Guardia Civil mi ha letto l’ordine di arresto, alla presenza dei miei genitori, mentre mi diceva che mi si arrestava per la mia collaborazione con ETA. All’inizio hanno cominciato a gridare, ma poco alla volta si sono tranquillizzati; io avevo paura per i miei genitori, perché loro immaginavano cosa mi avrebbero fatto durante quei cinque giorni… e in quel momento mi è venuta la nausea, credo per la tensione di quella situazione. Mi hanno detto che mi portavano nella mia stanza per cominciare la perquisizione; una volta lì, hanno smontato tutti gli armati, tirato fuori tutti i vestiti, spostato tutti i libri… nel frattempo, raccoglievano le cose che credevano importanti: lettere di prigioniere e prigionieri politici, quaderni di scuola, fotografie di amici e parenti, cartine stradali, agende telefoniche… A perquisire erano sei Guardia Civil, gli altri erano sulla porta, con i miei genitori e ce n’erano anche sulle scale del condominio. Hanno lasciato la mia stanza a soqquadro, tutto sparso in giro; quando hanno finito, sono entrati nella stanza di mio fratello maggiore, che si trova in prigione, e l’hanno guardata superficialmente. (…) Mi hanno portata alla porta e mi hanno messo delle manette di metallo dietro la schiena».

«Nell’automobile stavo in mezzo a due uomini, avevo la testa china; appena salita in macchina, quello alla mia destra mi ha levato le manette e me le ha rimesse sul davanti. Ha cominciato a parlarmi: “Sei stata presa, Amallita, e di questo devi renderti conto; per noi è lo stesso, perché sappiamo tutto, ma sappi che devi raccontarcelo tu e hai due modi per farlo: con le buone o con le cattive e credo che non ci sia bisogno di spiegartelo, no? Sicché, adesso, pensaci, perché ti darò l’opportunità di cominciare a parlare adesso, altrimenti dormo per tutto il viaggio e, quando arriveremo, sarò riposato e allora, se non avrai detto niente, saranno cazzi tuoi… ” (…).
Mi ripetevano continuamente le stesse cose, che cominciassi a parlare, altrimenti lui stesso avrebbe deciso di iniziare a picchiarmi, che sarei rimasta nelle loro mani per cinque giorni e che ormai non si tornava indietro… Dicevo loro che io non sapevo niente e loro mi dicevano che, così, cominciavo male, quando mi si rivolgeva mi chiamava Amallita, come fanno le persone a me vicine; questo mi faceva male, perché mi parlava con confidenza ed il fatto che facesse finta di essere una persona a me vicina ed in confidenza, mi disorientava.

Siccome il viaggio è stato lungo e poiché la persona che era stata arrestata prima di me era stata trasferita a Madrid, ho pensato che ci avrebbero portato anche me e così è stato. (…)
Appena arrivati alla caserma della Guardia Civil a Madrid e prima di farmi scendere dalla macchina, mi hanno coperto gli occhi con una benda; quello che durante il tragitto mi parlava, mi ha detto: “Adesso siamo arrivati, puttana, e non ci hai detto niente”, mentre mi lasciava nelle mani di altri Guardia Civil. Mi hanno di nuovo coperto gli occhi e mi hanno messo in una cella. A quel
punto, la donna mi ha spiegato come dovevo comportarmi ogni volta che avessero
bussato alla porta: dovevo mettermi contro la parete opposta alla porta, con le gambe leggermente piegate e le braccia dietro la schiena»

«Appena aperta la porta, ho sentito la voce del Guardia Civil che era stato in macchina fino a Madrid che diceva ad un altro, che chiamava Garmendia, di fare quel che doveva fare; mi è saltato addosso, mi ha buttato sulla branda e mi ha afferrato molto forte per le braccia. Ho cominciato a gridare di lasciarmi e loro mi urlavano “taci, puttana! “; allora li ho visti, erano incappucciati e quello che era stato nella macchina aveva i pantaloni e le mutande abbassati e veniva verso di me, dicendomi, sghignazzando, “ci scopiamo la fidanzata del capo”. Mi è saltato addosso, sfregando il suo corpo sul mio, percepivo il suo pene fra le mie gambe, piangevo e lottavo per levarmelo di dosso, mentre mi gridavano che mi avrebbero violentata. La porta della cella era aperta e c’erano non so quanti altri Guardia Civil che gridavano, sghignazzando, che loro sarebbero stati i prossimi; io gridavo, stavo piangendo, ma a loro non importava. Quello che mi stava sopra mi palpava dappertutto e mi premeva sempre più forte fra le gambe, mentre mi gridava “Cosa ti dice il tuo ragazzo mentre ti scopa? Gora ETA (Viva ETA, in euskara, N. d. T.)? Certo che ti stai arrapando, puttana, ti scoperemo tutti e gli farai schifo, perché ce la godremo un mondo, con te…! “. Hanno continuato così per parecchio, mi sentivo perduta, perché quello era solo l’inizio ed avevano cinque giorni per comportarsi così con me; ero completamente terrorizzata, ero sola nelle loro mani… Quando se ne sono andati avevo tutto il corpo indolenzito, mi sentivo spossata e piangevo continuamente, ero completamente bagnata e buttata in un angolo, con una coperta addosso. (…)
La luce era bianca e mi provocava dolore, mi hanno fatta sedere su una sedia e mi hanno indicato un pacco di sacchi per la spazzatura, mentre mi chiedevano se sapessi a cosa servivano; ho detto di sì e mi hanno obbligata a spiegare per cosa li utilizzavano, ridevano molto, fino a quando uno ha colpito la sedia con la mano. Mi hanno detto che avevo perso tutte le possibilità e che, da quel momento in poi, avrei conosciuto ciò che loro chiamavano tortura; mi gridavano i nomi di amici e conoscenti e volevano che dicessi loro come mai li conoscevo e che lavoro facevano.

Dicevo loro che molti li conoscevo, ma che non avevano alcuna relazione con l’organizzazione, almeno non che io sapessi; in quei momenti gridavano e mi insultavano, puttana, troia, bugiarda e mi mettevano un sacchetto di plastica sulla testa, stringendolo da dietro. Al principio, sentivo caldo, avevo il viso fradicio di sudore cercavo di muovermi quando il sacchetto mi tappava la bocca, non potevo respirare e cominciavo ad avere la nausea; riuscivo a rompere il sacchetto con i denti e, allora, quando cominciavo di nuovo a respirare, mi colpivano con degli schiaffi sulle orecchie.

La testa mi girava, quasi non li sentivo, ero completamente persa, ma mi gridavano di nuovo dei nomi e, siccome le mie risposte erano le stesse, mi mettevano un nuovo sacchetto sulla testa.

Quando vedevano che stavo un po’ meglio, cominciavano di nuovo con l’interrogatorio, gridandomi ancora ed ancora nomi su nomi, colpendomi con la mano aperta sulle orecchie ed infilandomi sulla testa un sacchetto dopo l’altro.

Mi ha coperto gli occhi e mi hanno portata di nuovo nella stanza con le piastrelle bianche; entrando ho sentito rumore di acqua, come se stessero riempiendo qualcosa e ridevano, sussurrandomi all’orecchio Amallita, Amallita. Non so se è stato per la paura o per quale altra ragione, ma in quel momento mi sono orinata addosso; alcuni hanno cominciato a ridere di me, mentre altri si sono arrabbiati e mi hanno detto che avrei dovuto pulire tutta la stanza con la lingua. Lo scroscio d’acqua è cessato e mi hanno costretta a fare un paio di passi in avanti ed a mettermi in ginocchio, mi hanno tolto la benda, mi hanno stretto le manette, ero ammanettata dietro la schiena. Davanti a me c’era la vasca da bagno… mi sono innervosita e tentavo di arretrare, ma non c’era via di scampo, ero circondata; sapevo già cosa mi avrebbero fatto, uno di loro mi gridava nomi che collegava a diversi “gruppi”, volevano solo che ammettessi ciò che dicevano, che ammettessi che quella gente faceva ciò che loro mi dicevano. Io ripetevo che non sapevo niente, che davvero non lo sapevo, che erano solo amici o gente che conoscevo e che quello che mi stavano dicendo non era vero o che, almeno, io non lo sapevo. Allora, in due, uno afferrandomi per il corpo, l’altro tirandomi per i capelli, mi mettevano la testa nella vasca da bagno, molto violentemente, in modo che con il petto urtavo il bordo: sentivo che affogavo, tentavo di tirarmi indietro con le gambe, ma non ci riuscivo, muovevo la testa con tutte le mie forze, per tirarla fuori dall’acqua, ma era impossibile finché loro non me lo permettevano. Ho bevuto troppa acqua, sia attraverso la bocca, sia attraverso il naso, mi girava la testa, ero senza forze, ma a loro non importava e continuavano a gridarmi nomi e ancora nomi, che dovevo ammetterlo, che dovevo ammetterlo; il pianto non mi lasciava dire niente e continuavano a mettermi la testa nell’acqua. (…) Ma controllavano molto bene quello che facevano, perché mi davano giusto il tempo indispensabile per respirare, non volevano nessun problema; per uscire da lì, ho ammesso quello che volevano, ho detto di sì, che avrei ammesso tutto e mi hanno riportata in cella».

«Allora, ho sentito la voce del Guardia Civil della macchina. Mi diceva che ero molto furba, un po’ testarda, ma che alla fine, anche se a legnate, avrei imparato a comportarmi bene, che i suoi uomini gli avevano
detto che c’erano buone notizie per lui e che questo significava che avrei ammesso tutto, dunque, che cominciassi a parlare. Sono rimasta in silenzio, tremando; allora mi ha avvertito che mi avrebbe detto ciò che dovevo ripetere di sopra e che se sul verbale non ci fossero state le cose esattamente come lui diceva, sapevo già cosa mi aspettava al ritorno e mi diceva che dovevo impararle bene. Poi, hanno cominciato a leggermi le domande che mi avrebbero fatto durante la deposizione e ciò che dovevo rispondere; sono andati avanti a lungo, fino a che non ho imparato a memoria le risposte (…) Mi hanno anche detto che avrei incontrato il medico legale, ma che non potevo dire niente delle torture, perché altrimenti sì che ne avrei subite e di molto più dure (…). Ero completamente terrorizzata, avevo molta paura che se non avessi detto quello che mi avevano ordinato, mi avrebbero torturata di nuovo; sapevo già che, anche se avessi detto quello che volevano, non mi avrebbero lasciata in pace, ma la paura ha avuto il sopravvento e ho tentato di rispondere alle domande. Ero molto nervosa e non volevo denunciare i miei amici e conoscenti, tanto più che erano tutte menzogne. Esitavo nel rispondere a quasi tutte le domande, non potevo sopportare il pensiero che quella gente sarebbe stata torturata come me, e cominciavo a piangere; in quei momenti, sentivo di nuovo picchiare dall’altra parte dello specchio.

Quando hanno finito con le domande, hanno stampato la deposizione e me l’hanno data, perché la leggessi e la firmassi; c’era tutto, anche cose che mi ero dimenticata di dire, allora mi sono resa conto che avevano la deposizione preparata in anticipo, perché c’era ciò che loro volevano che io dicessi, perché c’erano cose che non avevo detto in quei momenti. Ho firmato il verbale». (…)
E mi hanno portata un’altra volta, bendata, alla sala degli interrogatori; mi hanno messa al solito posto e uno di loro ha cominciato a parlarmi, mi ha detto che durante la deposizione mi ero comportata bene (…).

Anche se all’inizio mi parlava con un tono tranquillo, diventava sempre più nervoso, mi ha detto che mi avrebbero mostrato alcune fotografie e che avrei dovuto dire nome e cognome delle persone ritratte, gli indirizzi dei loro posti di lavoro e di dove abitavano. Ho detto che quasi tutta la gente delle fotografie era gente che conoscevo dal bar, ma che non sapevo né che luoghi frequentasse, né dove vivesse (…). E allora hanno cominciato a gridarmi “Troia! Puttana! Se in questi giorni non hai imparato niente, imparerai! “».

«Mi ha introdotto la canna della pistola nella vagina, gridandomi continuamente nell’orecchio “Cosa ti dice quando ti scopa? Gora Eta? “, non riuscivo a smettere di piangere e non avevo più la forza di gridare. Si è messo a introdurmi e togliere la pistola con maggiore violenza e mi faceva male, mentre mi diceva “ti piace puttana”, “non avrai un figlio di puttana, perché ti tirerò due colpi” (…). Tutti ridevano, uno mi teneva per il collo, mentre l’alto continuava a mettermi e togliermi dalla vagina la canna della pistola e mi palpava il petto in maniera molto brusca, strizzandomi il seno. Non so quanto tempo è durata la violenza, ma sono ammutolita, ero persa; in quella stanza stavano violando il mio corpo, ma per un istante sono riuscita a fuggire da lì, fra i singhiozzi, ma sono riuscita a fuggire da lì; mi ricordavo della mia gente, ero con loro, protetta.

Sono tornata alla realtà, mi faceva male dappertutto.

Da quel momento in poi tutto è stato in qualche modo più tranquillo; mi hanno messo il sacchetto in testa altre due volte, come se fosse stato un gioco, quando non me l’aspettavo e questo mi spaventava ancora di più. Mi hanno portata ancora una volta nella stanza dove tenevano la vasca da bagno e mi ci hanno rimesso la testa una volta; più che altro, ho subito minacce di violentarmi, di mettermi il sacchetto, di affogarmi nella vasca e così via. Dicevano che quello che stavano facendo a me l’avrebbero fatto anche ai miei famigliari. (…) Mi hanno messa in un furgone, tolta la benda, mi portavano alla Audiencia Nacional (Tribunale speciale, ndr), ho cominciato a piangere. Alla fine, ero fuori da quell’inferno».