«Così la globalizzazione sta uccidendo la mia Africa»

Alle Giornate internazionali di studio del Centro Pio Manzù quest’anno c’erano meno scienziati e più economisti, col risultato che si è sentita molta più ideologia che fatti, molte teorie e poca sostanza. Si è parlato delle distorsioni della globalizzazione, che nemmeno gli ultra-liberisti possono ormai nascondere, ma l’occasione è stata colta per suggerire la solita ricetta a base di mercato e Wto. Fra le poche, toccanti eccezioni, la testimonianza della keniota Miriam K. Were, medico e professore universitario, presidente del Kenya National Aids Control Council e dell’Amref (African Medical Research Foundation), organizzazione scaturita dai mitici “dottori volanti” degli anni Cinquanta. La dottoressa Were, alla quale il Centro Internazionale Pio Manzù ha consegnato la Medaglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, non si è vergognata di scoppiare in lacrime parlando della sua Africa. L’abbiamo incontrata per farci raccontare la sua esperienza.

Parliamo di globalizzazione…
Credo che la globalizzazione abbia degli aspetti positivi, prima fra tutte la possibilità di mettere in comunicazione popoli lontanissimi. Ma il problema è che, fino ad oggi, la globalizzazione è stata guidata dall’avidità e questo ha creato distorsioni enormi. Non bisogna credere che le distorsioni riguardino solo il rapporto fra i paesi sviluppati e quelli poveri perché anche all’interno dei paesi ricchi la disuguaglianza sociale è in costante aumento, con una disparità di redditi che non si vedeva dagli anni Venti. Basti citare il caso degli Stati Uniti dove, dal 1980 al 2004, mentre i salari medi scendevano i profitti dei più ricchi, circa l’1 per cento della popolazione, sono saliti di più del 135 per cento. Una simile tendenza viene registrata anche in Europa, per non parlare delle economie emergenti come l’India, dove i beneficiati dalla globalizzazione godono di ricchezze impensabili. E non dimentico certo che alcuni capi di Stato africani si sono appropriati delle ricchezze naturali dei loro paesi condannando il resto della popolazione alla miseria più nera. Dal punto di vista della distribuzione della ricchezza, l’Africa è l’esempio migliore delle distorsioni della globalizzazione.

Si dice che il problema dell’Africa sia la sovrappopolazione…
Non c’è niente di più falso. Basta considerare i dati demografici per notare che, rispetto alla superficie complessiva, l’Europa è molto più popolata dell’Africa. Un’altra falsità riguarda l’incapacità dei governi africani di negoziare perché mancano di competenze: il mio ministro del Commercio ha una laurea ad Harvard e quasi tutta la classe dirigente africana si è formata nelle migliori università occidentali. Non è un problema di competenze: è la forza del denaro che conta, l’interesse dei pochi che continuano a schiacciare la maggior parte della popolazione. Per me, come medico, l’elemento peggiore della globalizzazione sta nella cattiva distribuzione delle risorse mondiali. I miei figli hanno un rischio di mortalità superiore rispetto ai figli di uno di voi e l’Africa è l’unico continente dove la mortalità infantile non si è ridotta dagli anni Ottanta: oggi, a causa della povertà, muore un bambino ogni tre secondi. Dicono che le politiche economiche funzioneranno sul lungo termine ma, come si dice, sul lungo termine saremo tutti morti.

Che cosa significa fare il medico in Africa?

Significa combattere le malattie con mezzi e farmaci vecchi di un secolo. Significa salvare un bambino solo per vederlo morire di fame qualche giorno dopo. Ecco perché ho smesso di lavorare in ospedale: non riuscivo più a sostenere questa contraddizione.

Cosa pensa delle soluzioni proposte dalle grandi istituzioni internazionali?

A ogni vertice internazionale vengono promessi nuovi aiuti. Nel 2005, al G8 di Gleneagles, i potenti della terra si sono impegnati a raddoppiare gli aiuti entro il 2010 fino a raggiungere i 25 miliardi di dollari l’anno, ma poi non è stato fatto assolutamente niente. Non dico che la classe dirigente africana non abbia responsabilità, ma sono state le potenze occidentali a mantenere in vita i regimi dittatoriali e a creare le condizioni per la catastrofe di oggi. E la creazione degli stati africani è stata preceduta da cento anni di colonialismo e, prima ancora, da cinquecento anni di schiavismo. Ci viene detto: siete indipendenti da cinquant’anni, perché non avete risolto i vostri problemi? E’ perché siamo stupidi? Anche se fosse vero non si può negare che siamo stati aiutati in ogni modo possibile a distruggere il futuro dell’Africa.

Quale può essere una soluzione?

Non certo i programmi di aggiustamento strutturale che hanno distrutto il nostro potenziale umano. Ai nostri agricoltori è stato vietato di scambiarsi le sementi anche se non possiedono i mezzi per comprarle. Si dice: l’Africa è povera perché l’Africa è pigra, ma noi lavoriamo dall’alba al tramonto. Mio padre, che è morto qualche anno fa, mi disse: perché mi hai consigliato di raddoppiare la superficie coltivata con il tè da esportare? In realtà più produco e più si abbassano i prezzi, e più povero divento. La stessa cosa è accaduta ovunque, mio padre aveva ragione… Per quarant’anni ho lavorato a livello di comunità, ed è la comunità che consente la sopravvivenza in Africa. E’ una follia cercare di sostituire questo modello. Al contrario bisogna inserire la tecnologia nella vita di comunità con cautela, per evitare l’alienazione che non va bene per nessuno, tanto meno per gli africani. Io credo che il nostro stile di vita comunitaria potrebbe essere un modello di sopravvivenza per l’interno pianeta, ma naturalmente non è quello che pensano i burocrati del Fondo monetario o della Banca mondiale.

E’ la comunità tradizionale dunque, la strada?

Non resta molto dell’antica struttura sociale africana, questa è la tragedia. Per cinquecento anni ci è stato detto che l’unico modello di civiltà è quello occidentale e io stessa ho ricordi molto precisi a riguardo. Siamo stati educati al disprezzo della nostra cultura e a scuola venivamo puniti se ballavamo o ci acconciavamo all’africana. Anche oggi che sono un personaggio autorevole ricevo molto più credito e fondi in qualità di presidente dell’Amref, un’organizzazione fondata da bianchi, piuttosto che quando mi presento per chiedere aiuto per le associazioni africane che si occupano del recupero dei giovani tossicodipendenti di strada o che cercano di dare una mano ai produttori locali di vestiti o di cibo. Mi dispiace dirlo ma i pregiudizi razzisti sono ancora molto vivi in Occidente, anche fra le menti più aperte.

Cosa si aspetta dal Forum mondiale che si terrà a Nairobi nel gennaio prossimo?

Io credo molto nel lavoro delle ong e della società civile. Mentre i governi litigano, ci sono ong africane e occidentali che cercano di costruire il futuro. Gli altri, le istituzioni internazionali, intervengono solo per criticarci e punirci. Quando gli esperti di economia vengono e fanno i loro conti, sono tentata di dire: lasciateci morire in pace. Ricordate: una piccola isola di ricchezza in un mare di povertà non sopravvive. Non è una minaccia, è una semplice constatazione. Perciò ho estrema fiducia nel processo del Social Forum e di sicuro porteremo a Nairobi i giovani con cui lavoriamo, migliaia di giovani che aspettano quei giorni con grande speranza. Porteremo la nostra esperienza e quella delle comunità con cui lavoriamo, con la certezza che sarà un grande evento.