Ha comincialo un po’ per gioco e un po’ per non sentirsi troppo sola, quella volta in cui lei e il suo Yousuf di appena un anno si ritrovarono per 55 giorni bloccati sul lato egiziano del valico di Rafah, l’unico cancello relativamente aperto sulla grande prigione di Gaza. Oggi, Yousuf ha compiuto tre anni e la sua mamma, Laila el Hadd, è diventata nel frattempo una “firma” del giornalismo in rete, con quel suo blog (another-from-gaza.blogspot.com), nato per spezzare l’ineliminabile attesa e via via trasformato in un osservatorio sulla difficile realtà palestinese.
“All’inizio pensavo di seri vere soltanto su Yousuf, la sua crescita, le sue paure, le sue piccole conquiste — racconta Laila — Ma quando, nel dicembre del 2004, Yousuf e io, sulla via del ritorno a Gaza, ci siamo ritrovati inchiodati al posto di frontiera di Rafah, in pratica rifugiati in Egitto contro la nostra volontà, allora ho pensato che forse sarebbe stato interessante descrivere le nostre esperienze sul mio blog”.
Ne è venuta fuori una descrizione interiore e politica al tempo stesso, una rappresentazione umana, spesso ironica “su come l’occupazione è diventata per i palestinesi un problema molto personale, che li tocca non solo come popolo ma anche come individui, madri, padri, figli, fino all’ultimo dettaglio delle loro vite”.
Il diario del primo mese di Yousuf a Gaza è diventato così il racconto in presa diretta su un’esperienza singolare e, in parte, drammatica, se si pensa al marchio che lascia la violenza in un bimbo di pochi anni, sempre, tuttavia, abbozzala con il sorriso sulle labbra.
“Tu vorresti proteggere i tuoi figli più a lungo possibile. Ma ad un certo punto capisci che non lo puoi più fare”. E ricorda Laila che “per Yousuf alcune delle prime parole apprese furono infjar, esplosione, e persino ‘Hamas’, quando, vedendo le bandiere delle manifestazioni, cominciava a riconoscere il colore verde”.
Una volta, mentre madre e figlio vanno al supermercato, Yousuf, più cresciutello, chiede: “Mamma, che cos’è Gaza?”. “Sono rimasta stupita. Quasi inciampavo. Come rispondergli? Cosa era stata e cosa era diventata Gaza? E lui, insistente: È Ma3bar? (“Ma3bar-Rafah” e il nome convenzionale dato al corridoio riservato ai i palestinesi di Gaza che debbono passare in Egitto). “Ho cercato di rispondergli che Gaza era un luogo, una casa, la sua casa, dove ci sono i suoi giochi e dove vivono anche il nonno e la nonna, ma ho realizzato che nella sua mente Gaza era associata ad un’esperienza di confini, un posto lontano per raggiungere il quale occorrono giorni, settimane. Un luogo di cui nessuno vuole parlare o sentir parlare e, soprattutto, su cui nessuno può darti risposte”.
Una delle poche corrispondenze dall’interno della Striscia scritte in inglese, il blog di Laila ha ricevuto un’audience vastissima.
L’ironia, dote spesso trascurata e tuttavia assai tipica del carattere palestinese, non manca mai. Un’ironia dolce-amara: “Noi abbiamo fatto e disfatto le nostre valigie una dozzina di volte — scrive Laila durante un altro difficoltoso attraversamento della frontiera — A volte le cose funzionano all’incontrario qui: l’ultima volta siamo stati bloccati per 55 giorni in Egitto; stavolta, il giorno che abbiamo deciso di fare un po’ di provviste, il confine è stato aperto”.
Vita raminga quella di Laila e Yousuf perché il marito, e padre del bambino, Yassin, è un palestinese originario di Haifa, dunque, tecnicamente, un “rifugiato”. “Questa parola in alcuni importanti circoli israeliani è diventata sinonimo di peste. Non solo gli viene negato il diritto di tornare nella sua patria, ma gli viene negato persino l’ingresso a Gaza, in compagnia della moglie e del figlio”.
Laila ha sperato mollo nel ritiro. Ma presto ha scoperto che, anche dopo il ritiro dell’estate 2005, a tenere le chiavi del cancello di Rafah sono sempre le autorità israeliane. E Israele da alcuni anni, ormai, non rilascia più i permessi che consentivano la “riunificazione” delle famiglie.
Anche per questo, giorno dopo giorno, il blog della mamma palestinese è diventato, come dice Laila, “una forma di resistenza virtuale” e lei una testimone che spazia, ormai, dai siti di Al Jazeera International a quello del Guardian online.
Laila assicura che fra le risposte che riceve ce ne sono mote di israeliani simpatetici. Ma è nella natura stessa del blog esporsi anche all’insulto. Qualcuno ad esempio ha scritto: “Yousuf è un bel bambino: purtroppo ha una madre così orribile che lo sta crescendo per farlo diventare un bombarolo suicida come tutti gli altri palestinesi”. Ma, dice Laila, “questo è il prezzo che si paga per aprire la propria porta al mondo”.