Così ci si pone l’obiettivo dell’egemonia

L’intervista di Bertinotti al “Corriere della Sera” ha suscitato un vivace dibattito. La cosa di per sé non è un male, anzi! L’idea di inserire nel dibattito politico proposte che si rappresentano ed insieme “movimentano” il quadro dato non mi pare una modalità da non prendere in considerazione come uno (se fosse l’unico sarebbero guai seri, non c’è dubbio) dei modi con cui si può intervenire nella politica (a proposito: mi era parso di riscontrare anche nel nostro recente passato una critica opposta relativa proprio ad una nostra presunta scarsa incidenza e scarsa attenzione al concreto dibattito tra le forze politiche. Oggi – perché sottovalutarlo? – quello che diciamo ha pure il peso del 6,1 % che ci fa essere per voti il quarto partito italiano).

In ogni modo prima di vedere alcune delle reazioni interne sarebbe utile valutare pur sommariamente lo “sparigliamento” che le cose dette hanno determinato nell’Ulivo e dintorni. C’è interesse per la proposta anche se molti cercano di arrampicarsi sugli specchi. Diciamolo chiaramente: i teorici delle primarie si sono trovati un po’ un difficoltà rispetto ad un insieme di proposte che, prendendo per serio l’argomento, tentano di entrare nel merito e ne propongono una precisa modalità, un suo possibile svolgimento.

Ad una proposta complessa che si motiva solo nella sua interezza non si può rispondere spezzandola, rendendola così inservibile, per esempio enfatizzando solo il vincolo per così dire di maggioranza. Così la proposta, lo vorrei ricordare anche ai critici interni, non funziona, non regge, non è quella di Bertinotti.

Come vorrei ricordare a tutti noi che non c’è alcun dibattito interno, alcuna esigenza di schieramento che possa autorizzare a far perdere di vista, sino alla caricatura, i contenuti della proposta originaria. Di cui non mi nascondo tutte le asperità, penso soprattutto, ma poi ci verrò, al tema della guerra. Del resto altre soluzioni, tutte legittimamente proposte ovviamente, mi paiono pasticciate e più deboli.

Pasticciate e più deboli rispetto al crinale sul quale si colloca concretamente la nostra iniziativa politica: battere la destra e far cadere il governo Berlusconi sulla base di un riconoscibile programma alternativo di governo. Ho letto sul manifesto del 15 agosto una ingenerosa polemica del compagno Grassi: “noi non abbiamo atteso l’estate del 2003 per mettere l’esigenza di battere Berlusconi al primo posto”. Se quel “noi” sta, come penso, per “noi dell’Ernesto”, allora giudico questa tirata politica sbagliata, mal posta e in fin dei conti ingenerosa perché è stato nel tempo tutto il partito a porre con forza questo tema all’ordine del giorno dell’agenda politica delle opposizioni. Basterebbe pensare con quanta insistenza abbiamo nel tempo, appunto, posto e riproposto il problema della manifestazione delle opposizioni. Ho letto di compagni che avvertono la difficoltà del passaggio, le assai differenti posizioni su temi rilevanti tra noi e l’Ulivo e della necessità di mettere dei paletti, dei punti senza i quali si possa andare ad un accordo. Cannavò chiede che non si giudichi “dannoso” il dissenso. E’ persino banale dire che sono d’accordo con lui. Di più: tutta la nostra storia recente dimostra che questa richiesta è fortunatamente pleonastica.

Nel merito: abbiamo letto tutti noi dei ritornanti tentennamenti sul ritiro delle truppe dall’Iraq come abbiamo letto che l’On. economista Nicola Rossi, alla domanda del Corriere della Sera se il centro-sinistra tornando al governo avrebbe modificato la legge sulle pensioni, abbia risposto di no.

Come non abbiamo mancato di criticare l’On. Rutelli quando ha espresso anche lui l’idea che non sarebbe utile cancellare le pur pessime riforme del centro-destra. Persino Prodi ci ha fatto un certo effetto quando si è augurato che la legislatura giungesse alla sua conclusione naturale. Abbiamo letto tutto questo e insieme posizioni radicalmente critiche di partiti o pezzi di partito, di sindacati, di associazioni persino di gruppi di deputati e senatori per non dire delle espressioni del movimento. Si tratta dunque di materia viva su cui intervenire, di scelte su cui dobbiamo far pesare le forze che su questi temi hanno dato battaglia in questi anni.

Il crinale è dunque difficile e periglioso e ci pone ancora una volta il tema di come si potrà tenere insieme unità e radicalità. Io la penso così: se non dovessimo partecipare all’accordo per battere Berlusconi saremmo praticamente cancellati e se partecipassimo con un programma all’insegna di un po’ meno della destra non cacciando dal panorama delle leggi italiane quella sulle pensioni, la “Moratti”, la legge 30, la legge sulla procreazione assistita (temi su cui Bertinotti ha insistito) risulteremmo non riconoscibili e quindi non votabili, marginali in un impianto moderato. In questo quadro e a fronte di queste difficoltà, avendo scartato l’idea di una trattativa, “proponiamo un processo a tutto campo, aperto e coinvolgente, il contrario di una trattativa che si chiude tra le forze politiche che si autoproclamano rappresentanti dei movimenti” (così è scritto nel documento APPROVATO a conclusione del CPN del 3 e 4 luglio). Si tratta, quindi, di capire in quale direzione muoversi.

L’idea di un processo che coinvolga da subito e per decidere le scelte possibili, i partiti, i sindacati, i movimenti, le associazioni, le amministrazioni locali, tutti/e coloro che hanno interesse per la sorte della coalizione, mi pare non solo ragionevole ma anche molto forte e molto radicale. Si tratterebbe di un percorso che non affiderebbe la totale definizione del programma ai segretari o agli esecutivi dei partiti. Ed è tanto poco organica questa proposta al centro-sinistra che le risposte hanno dimostrato interesse ma poi a ben vedere o sono state negative o sono state solo parzialmente positive, con l’obiettivo di renderla impraticabile. Sto parlando delle forze del centro-sinistra perché in altri luoghi della politica e della iniziativa ci sono stati, invece, consensi veri.

Si dice: ma il rischio della consultazione e della partecipazione, di quello che per comodità potremmo definire il popolo della coalizione, è quello di trovarci di fronte a scelte incompatibili con la nostra natura. Domando, in linea teorica si intende, se il rischio potrebbe risultare attenuato se a decidere fossero solo gli esecutivi dei partiti. Prendiamo il tema della guerra. Certo che sentiamo tutti e con la stessa intensità la necessità di tenere ben fermi l’art. 11 della Costituzione e i processi materiali che sono intervenuti in questi ultimi tempi. Può, in buona fede, qualcuno sostenere che sul punto discriminante della guerra, Rifondazione abbia mai avuto qualche incertezza o qualche ambiguità? Il nostro no alla guerra è divenuto addirittura fondante di una nuova ricerca identitaria che ci ha fatto incontrare la teoria e la pratica della nonviolenza.

Il punto è un altro e non si può far finta di non capirlo: come si passa dalla testimonianza alla conquista di una vera egemonia? E sul ritiro delle truppe italiane e sul rifiuto dell’appoggio in qualsiasi modalità al conflitto armato già abbiamo sperimentato la possibilità di costruire in maniera vincente un fronte largo, superiore ai confini del nostro partito e del nostro elettorato. Su questo come su altro (penso alle mobilitazioni contro la “Moratti”) abbiamo sperimentato una disponibilità nel paese che sarebbe sbagliato non mettere in qualche modo in campo per decidere quale alternativa programmatica di governo costruire.

Milziade Caprili