Cosa rossa stampella del Prof. Si accelera verso la federazione

A dispetto del “duro” di Rifondazione Ramon Mantovani, secondo il quale «le manifestazioni a favor e del governo si fanno solo nei regimi dittatoriali» (lui le vorrebbe di opposizione), il corteo che è sfilato per la Capitale è stato un lungo serpentone pro palazzo Chigi. Un “leftpride” che ha sì portato in piazza temi cruciali quali il precariato, il lavoro, il welfare, ma dal punto di vista politico non è stato affatto un ultimo avviso a Romano Prodi e al governo nel quale, fra l’altro, i capi dei manifestanti stanno saldamente annidati. «Comunista sì, ma matto no», ha riassunto Alfonso Gianni sottosegretario allo Sviluppo, «non sono così pazzo da manifestare contro il mio posto di lavoro». «Comunista sì, ma scemo no», ha riassunto a sua volta Oliviero Diliberto leader del Pdci, «noi il governo non lo facciamo cadere, è l’equlibrìo più avanzato possibile». Parafrasando un vecchio detto maoista, “meglio Prodi che morti”. Per tutti il concetto lo ha espresso Franco Giordano, leader di Rifondazione e uscito da trionfatore dopo il corteo che ha fortissimamente voluto a San Giovanni nonostante i suggerimenti di una piazza più piccola per evitare magre figure: «Prodi deve fidarsi, siamo i più leali con lui, saremo noi a salvarlo dai giochetti di Palazzo».
No, non verrà dalla sinistra alla sinistra del Pd il corto circuito che potrebbe portare alla crisi di governo più annunciata e finora mai realizzata degli ultimi tempi. «I problemi vengono dal centro della coalizione, non da noi», ripete Diliberto. Non sarà la sinistra alternativa a staccare la spina. «Sostengono il governo? Bene, allora vuol dire che voteranno il protocollo sul welfare», incalza sornione il ministro Beppe Fioroni, «voglio proprio vedere chi alla fine romperà il patto con gli elettori. Se qualcuno stacca la spina, al di là delle parole e delle intenzioni, dopo ci sono soltanto le elezioni».
E’ piuttosto sul Partito democratico che gli organizzatori del left pride indirizzano gli strali. Gli slogan contro Walter Veltroni, le contumelie contro il neonato Pd con tutte le sue primarie di contorno sono stati i veri obiettivi polemici del corteo. «Eccole le nostre vere primarie», ha esclamato Giordano che la conta sul leader della futuribile Cosa rossa vede come il fumo negli occhi, «noi le facciamo sul soggetto politico della sinistra che a questo punto non potremo che accelerare». Un concetto ripreso da Achille Occhetto, coinvolto nella Cosa rossa, da Fabio Mussi e Cesare Salvi assenti enrambi dal corteo («Altro che marcia degli incazzati come temeva qualcuno, a questo punto ci vuole il partito unico», si è sbilanciato il capogruppo al Senato).
Le prossime tappe per costruire la Cosa rossa sono delineate. Mercoledì si vedranno riservatamente Giordano, Mussi, Diliberto e Pecoraro Scanio, i capi delle formazioni interessate al progetto e già scherzosamente ribattezzati la “banda dei quattro”, che dovrebbero dare l’impulso decisivo a procedere sulla strada unificante: tramontata l’idea di sciogliere i rispettivi partiti e partitini per fondersi in un soggetto tutto nuovo, si procederà piuttosto con gli stati generali della sinistra da tenere a dicembre, con l’obiettivo poi di approdare a una federazione della sinistra fornita di apposita cabina di regia. Una soluzione che permette a tutti di mantenere le rispettive “ditte” con corredo dì marchio e apparat-niki, salvo presentarsi insieme alle elezioni sotto lo stesso simbolo. Un po’ lo schema dell’Unione prima dell’avvento del Pd.