Ma perché andare a votare il 25 giugno visto che, comunque vada il referendum, i partiti hanno già deciso di cercare subito dopo un accordo per modificare la Costituzione? La domanda, comprensibile e giustificata, circola ampiamente nell’elettorato di centrosinistra. Le risposte però sono numerose e ciascuna basterebbe a consigliare di non disertare le urne.
Prima di tutto se dovessero vincere i sì, anche con una minima affluenza, la partita sarebbe nella migliore delle ipotesi chiusa e saremmo tutti condannati a ingoiare l’indigeribile pasticcio di Lorenzago. Ma nella peggiore e di gran lunga più probabile ipotesi le cose andrebbero anche peggio. Forte del successo, il centrodestra insisterebbe comunque per mettere mano a una ulteriore e stavolta bi-partisan revisione della Costituzione del ’48. Non certo con l’obiettivo di tornare sui propri passi ma con quello, opposto, di spingersi oltre ed espugnare le ultime ridotte della antica Carta. Basterebbero un paio di passaggi: possibilmente il balzo finale verso il presidenzialismo o il premierato assoluto, con la ratifica dell’elezione diretta del capo del governo, e soprattutto il federalismo fiscale, come dire il detonatore in grado di trasformare l’attuale devolution, già di per sé nefanda, in una bomba ad altissimo potenziale esplosivo.
E’ vero che, quasi certamente, anche la vittoria dei no sarebbe solo il prologo a un nuovo tentativo di riforma. Questo però non autorizza affatto a pensare che, di conseguenza, il voto del 25 giugno sarà privo di conseguenza. Al contrario, anche in caso di vittoria dei no e di successivo avvio di una trattativa bi-partisan, si può star certi che quel voto verrà dissezionato, analizzato da ogni punto di vista, scomposto metodicamente per aree geografiche. Di fatto costituerà un’indicazione fondamentale per il futuro. Non basterà a chiudere la partita sulla riforma costituzionale, ma ne condizionerà fortemente gli esiti.
Se, ad esempio, i no prevarranno di misura e su una percentuale bassa di votanti, le forze politiche trarranno quasi automaticamente la conclusione che la difesa della Costituzione è tema pochissimo sentito e si sentiranno autorizzate a procedere, se del caso, nello smantellarla. Una vittoria netta dei no su una rilevante percentuale di votanti avrebbe significato opposto: se non proprio rosso rappresenterebbe almeno un semaforo giallo e consegnerebbe alle aree politiche che mirano a difendere quanto più possibile la Carta del ’48 argomenti e strumenti preziosi.
Altro esempio: qualora il no vincesse di misura ma gli elettori del nord affluissero in proporzioni massicce alle urne per votare sì, la sconfitta della riforma di Lorenzago verrebbe trasformata subito dopo dalla propaganda del cavaliere in un successo «morale». Alla vittoria risicata dei no sul terreno nazionale verrebbe contrapposto il trionfo dei sì nelle «aree produttive». Sarebbe lo stesso argomento usato dopo le elezioni del 9 aprile, ma mentre in quel caso il centrosinistra non avrebbe potuto in alcun modo dare ascolto ai rivali (salvo abidcare e convocare nuove elezioni) stavolta è certo che il discorso troverebbe orecchie ben più attente.
A disinnescare parzialmente la prova di giugno ha contribuito in buona misura Silvio Berlusconi. Dopo aver promesso di trasformare ilreferendum sulla riforma costituzionale in un plebiscito pro o contro Prodi ha fatto un notevole passo indietro, attenuando all’improvviso i toni da guerra santa ai quali ci aveva abituato da mesi. E’ una trappola studiata a freddo. Maestro (lo ha dimostrato il 9 aprile) di sondaggi, Berlusconi sa perfettamente che il suo elettorato si mobilita quasi esclusivamente nelle elezioni politiche. Tiepido nelle amministrative rischia di rivelarsi surgelato in questo referendario. Dunque deve puntare sulla diffusione di un identico disinteresse nel fronte avverso. Scendere in campo in prima persona, occupare l’intero spazio mediatico, caricare la prova di significati politici complessivi sarebbe stata in questo caso, al contrario che nelle elezioni politiche, una strategia fallimentare. Molto meglio adottare un insolito basso profilo ed evitare così di spingere verso il voto gli elettori dello schieramento avversario.
Ma è meglio non farsi illusioni. Se Berlusconi vincerà il referendum il basso profilo di questi giorni diventerà da un secondo all’altro altissimo, e i toni sommessi si faranno striduli. E non del tutto a torto. Un cavaliere vincitore avrebbe gioco facile nel sottolineare l’assurdità di una quadro politico che vede al governo le forze contrarie a un disegno complessivo dello stato approntato dall’opposizione e sottoscritto dal popolo votante. Anche in questo caso, ovviamente, la maggioranza proverebbe a negare l’evidenza, assicurerebbe che tra il voto sulla riforma costituzionale e quello sul governo del paese non ci sono rapporti. Sarebbe una reazione quasi obbligata, e tuttavia fare finta di niente diventerebbe difficile.
E lo diventerebbe tanto più qualora l’eventuale vittoria del sì dovesse essere registrata su una percentuale alta di votanti, superiore al 50%. A quel punto sarebbero compromessi non solo i futuri assetti costituzionali del paese: lo sarebbe anche la già fragile stabilità della maggioranza.