Cosa aspettiamo in Afghanistan?

Se cercassimo la polemica, diremmo che il governo fa davvero poco per rassicurare il popolo della pace. Ma rifuggiamo da inutili querelles. La situazione è talmente drammatica che quel che conta – anziché litigare – è prendere le giuste decisioni. Le sole coerenti con le valutazioni degli stessi governi. «La situazione è perfino più difficile di quanto ci aspettassimo», ha detto l’altroieri il ministro della difesa britannico Des Browne. Ancor più esplicito era stato giorni fa il nostro ministro degli esteri, parlando brutalmente di «fallimento».
Se non fosse chiaro, stiamo trattando dell’Afghanistan. Come i lettori del manifesto ricordano, lo scorso luglio la questione del rifinanziamento della missione militare a Kabul fu materia di aspro confronto in seno all’Unione. Alla fine il governo ottenne il via libera non solo perché pose la fiducia, ma anche perché assunse solennemente alcuni impegni. Promise che le regole d’ingaggio non sarebbero state modificate, che il contingente italiano non sarebbe stato accresciuto, che i nostri soldati non avrebbero varcato i confini della zona di competenza del Comando regionale Ovest (le province di Herat e di Farah) e che un comitato parlamentare di monitoraggio avrebbe vegliato sulla conformità dell’azione delle nostre truppe agli scopi pacifici di una missione finalizzata a sostenere la ricostruzione e la «transizione democratica» del paese. Adesso, trascorsi due mesi di notizie sempre più allarmanti dall’Afghanistan, occorre tentare un bilancio.
Cominciamo proprio dallo stato di cose sul terreno. Quest’estate, mentre la coltivazione del papavero raggiungeva livelli record, corrispondenti al 92% della produzione mondiale dell’eroina, la guerra, dapprima confinata nella regione di Kandahar, è venuta dilagando verso nord-ovest, coinvolgendo le province di Helmand (sotto il controllo inglese) e di Farah (sotto controllo italiano). Per un puro miracolo l’8 settembre scorso non c’è scappato il morto in una imboscata a danno dei militari italiani del Comsubin (gli incursori della Marina). Nell’altalena tra attacchi della guerriglia e rappresaglie Isaf si sono succeduti bombardamenti aerei pesanti e massicce offensive di terra contro città e villaggi. Le stragi di civili sono all’ordine del giorno. Il comandante della missione, il generale britannico David Richards, ha messo le mani avanti, chiarendo che in una guerra come questa «a volte non è possibile evitare perdite tra i civili». Molto ragionevole. Speriamo lo spieghi anche ai suoi soldati, che – come ha documentato proprio ieri peacereporter – hanno il vizio di mettere dei fucili accanto ai cadaveri quando si accorgono di avere massacrato gente inerme.
In questa situazione, che ne è delle regole d’ingaggio? Ancora Richards: dato il livello di pericolo, sono ormai «le più dure mai stabilite dalla Nato» e tali da consentire «azioni militari preventive». Sono cambiate o no? Del resto, come sarebbe possibile il contrario, se i nostri stessi servizi segreti parlano senza mezzi termini di «irachizzazione» della guerra afgana? E che ne è del numero dei militari italiani in Isaf? In luglio erano 1350, adesso sono 1938. Sono aumentati o no? Conosciamo la risposta: sono pur sempre meno dei 2400 stanziati in passato dal governo Berlusconi. Giudichi il lettore la qualità dell’argomento. Quanto alla zona di dislocazione delle truppe, basti considerare che dal 6 agosto le forze italiane sono inserite nel «Comando regionale della capitale», competente sull’87% del territorio afghano. Infine, per quanto concerne il comitato di monitoraggio, presentato come emblema di «discontinuità», non se n’è ancora vista l’ombra.
Questo è lo stato dell’arte. Ci chiediamo che cos’altro dovrebbe accadere, a questo punto, perché finalmente il governo riconosca la necessità di procedere in Afghanistan come in Iraq, portando via al più presto i nostri soldati. Tanto più che nel frattempo ci si è assunti l’impegno dell’interposizione in Libano, alla cui credibilità certo non giova il fatto che altrove l’Italia continui a far la guerra. Un fatto ad ogni modo è certo. La discussione sulla missione Isaf deve riaprirsi al più presto, anzi subito. Per evitare che sotto l’urgenza delle decisioni le differenze si esasperino, rischiando di impedire il reciproco ascolto.