Corano, oppio e armi. I misteri dei Taleban

“Studenti” sono stati definiti e continuano ad esserlo dalla stampa pakistana. Studenti del Corano. Studenti pashtun. Reclutati nelle immense tendopoli attorno a Peshawar, nei campi profughi. Figli di contadini che non avevano mai conosciuto la luce, il telefono. Vissuti fin dalla nascita in condizioni miserevoli. (…) Tanti, tantissimi. Su una popolazione di profughi afghani attorno ai 2 milioni, i giovani in età dai 7 ai 18 anni non dovevano essere meno di 150 mila. Un esercito potenziale. Le scuole coraniche, le madrassa, esercitate da mullah a loro volta ignoranti e fanatizzati dalla Jihad, esistevano anche prima. (…).
Si ritiene che la svolta nell’uso delle madrassa come centri di reclutamento al tempo stesso ideologico e militare risalga alla fine del 1993. I commercianti di droga si rendevano conto che le rivalità dei capi guerrieri avrebbero reso sempre più precari e costosi i trasporti dell’oppio grezzo attraverso il territorio afghano. E decisero di dotarsi di una propria “milizia”, ben distinta da quelle dei warlords locali, cioè dai mujahidin. Il reclutamento di migliaia di ragazzi venne facilitato dall’afflusso di denaro. Nelle madrassa, dove prima si beveva solo tè e si mangiava qualche galletta, cominciò ad arrivare cibo in scatola, scarpe, vestiti. Dei trecento o quattrocento allievi di una madrassa, – secondo testimoninza raccolta da chi scrive – di regola emergono meno di dieci giovani alfabetizzati. Il resto rimane analfabeta. Le sue conoscenze del Corano sono limitate a piccoli excepta imparati a memoria in una specie di catechesi ossessiva. A questa tradizionale fisionomia delle madrassa si aggiunse l’istruzione militare. Questa viene impartita nei campi organizzati dall’esercito pakistano, specie dai corpi speciali e dall’Isi, servizi segreti (…), corsi di formazione accelerata, dove s’insegna l’uso di fucili mitragliatori e mitragliatrici. Istruzioni sull’uso di armamenti più sofisticati vengono impartite solo ai più dotati, cui in seguito vengono affidati ruoli di comando sul terreno.
Il comando dei battaglioni resta assegnato ai mullah. (…) Secondo numerose testimonianze i taleban subiscono spesso gravi rovesci e forti perdite umane proprio a causa dell’inesperienza. Si racconta a Kabul che, dopo ogni grande scontro tra Masud e i taleban, all’aeroporto scendono decine di aerei cargo senza insegne, dai quali sbarcano nuovi contingenti di “studenti”, pronti per essere mandati al macello. Sottovalutare la loro forza sarebbe tuttavia un errore. Innanzitutto i taleban vanno in combattimento con una motivazione – religiosa – che manca ormai totalmente ai loro avversari. Essi si sentono investiti dall’onore di condurre una nuova guerra santa che, “certo è condotta contro i fratelli di fede, ma che hanno la grave colpa di essersi venduti all’infedele” (da una testimonianza da me raccolta a Kabul, nell’ottobre 1996). Il carattere mercenario di questo esercito è indubbio, ma gli emolumenti sono miserevoli (…).
Comunque la ragione delle loro “invincibili avanzate” è altra e consiste in un’accurata programmazione degli interventi non solo militari, ma anche economici e politici sul terreno, coniugata a sua volta con una permanente linea di comunicazione tra Kandahar e Islamabad. L’Herald, un importante giornale pakistano, rivelò (gennaio 1996) l’esistenza di due linee telefoniche speciali e segrete, colleganti Quetta e Lahore a Herat e Kandahar. L’articolo era sarcasticamente intitolato “Fai il numero di Lahore per parlare con i taleban”. I servizi segreti pakistani, a loro volta, possono fare tesoro dell’esperienza accumulata ai tempi della guerra contro l’Urss. I taleban hanno potuto (non si può dire se ancora lo possano) in tal modo giovarsi di tutta la rete di rilevazione, inclusa quella satellitare (concessa dai servizi segreti americani). Infine, non ultima e, anzi, principale componente del successo, i taleban e i loro consiglieri pakistani dell’Isi condussero sul terreno una fitta rete di negoziati con i warlords locali. A ciascuno, purché si piegasse a un’intesa, evitando il combattimento, furono offerti importanti incentivi. (…) In alcuni casi i capi vennero semplicemente comprati. Haji Kadir, governatore di Jalalabad, sarebbe stato conquistato da una valigia con 20 milioni di dollari, di cui 15 risultarono falsi, stampati a Peshawar dai servizi segreti di Islamabad. E’ solo un episodio. In realtà i warlords stanno comodamente sul territorio e possono pagarsi i loro piccoli eserciti, imponendo tariffe di transito ai convogli di droga. I taleban offrirono a ciascuno di loro adeguate percentuali (…) .
Tutto questo lavorio rende assai meglio comprensibile la straordinaria rapidità dell’avanzata dei taleban dall’ottobre 1995 in avanti, in molti casi realizzata senza significativi combattimenti. (…) Questa strategia, in primo luogo pakistana, si rivelò vincente. Kabul e gran parte del territorio furono conquistate. E – secondo i dati dell’Undcp – la produzione di oppio grezzo è salita nel 1997 (un anno dopo la conquista di Kabul da parte dei taleban) a 2800 tonnellate (erano 220-240 nel periodo 1992-1995). Affari a gonfie vele. Diverse volte al mese convogli di possenti Toyota, scortati da mezzi pesantemente armati, muovono di notte in tutte le direzioni in partenza dalle province maggiormente produttrici: Helmand, Kandahar. Il traffico è ben regolato.
Strategia vincente sì ma solo fino ad un certo punto. Il prezzo più evidente è l’affondamento dell’Afghanistan come Stato. I taleban, custodi della droga, non sono in grado né di governare il paese, né di ricostituirlo. Una vera classe dirigente non è stata creata. E non si crea una classe dirigente spingendo il paese verso l’analfabetismo generale e privandolo di ogni struttura di formazione, com’è avvenuto. In cinque anni di potere a Kabul i taleban non hanno ricostruito nulla. E’ un segno impressionante dell’assenza di progetti. Inoltre anche per il Pakistan attuale questo Afghanistan diventa un problema sempre maggiore. La droga fiorisce, ma il denaro della droga è divenuto il motore principale dell’intera economia pakistana. E della sua vita politica. A cinque anni dalla conquista del potere sono solo tre i paesi che hanno riconosciuto il nuovo regime: il Pakistan, l’Arabia Saudita, e gli Emirati Arabi. Un elenco rivelatore, per le presenze e per le assenze. Gli Stati Uniti non hanno potuto riconoscere il nuovo regime, anche se cercarono di stabilire subito buoni contatti con esso. Per la semplice ragione che il regime è impresentabile nel consesso internazionale. E, dunque, non solto perché ospita Osama bin-Laden. D’altro canto la conquista di quel famoso (e molto dubbio) 90% del territorio significa che una parte ampia del Nord non è stata conquistata. Questa parte, con la valle del Panjshir, si spinge fino a meno di 100 km da Kabul. In queste condizioni non si costruiscono oleodotti per 5 miliardi di dollari, che salterebbero in aria ogni notte. Il progetto Unocal-Delta Oil rimane irrealizzabile. E lo splendido, nuovo aeroporto di Ashgabat, inaugurato nel 1996, rimane chiuso per gran parte del tempo: arrivano ora meno aerei di quanti ne arrivassero ai tempi sovietici.
Questo Afghanistan fa paura a tutti e non piace a nessuno. Quando i taleban presero Kabul, i paesi della Cis convocarono (4 ottobre 1996) un summit d’urgenza ad Alma Ata (…) . La Russia, finalmente destata dal suo torpore, si rese conto che il pericolo diventava grave. Gli altri convennero. Tutti eccetto Saparmurad Nijazov, che non andò al vertice e si limitò a parlare al telefono con Viktor Cernomyrdin. Le altre repubbliche e la Russia, dilaniata dalla prima guerra cecena, allora appena terminata con una durissima sconfitta, avevano tutte – e hanno – il problema del rapporto con le opposizione islamiche fondamentaliste. In Tagikistan, la più esposta al contatto e al contagio, il dialogo positivo appena cominciato tra governo e opposizioni islamiche assai intransigenti, poteva essere drammaticamente interrotto da un inasprimento militare sulla linea di confine con l’Afghanistan dei taleban. Per quanto concerne il Kirghizistan, non è un mistero che i leader e le basi di addestramento dello Hezb-i-Takhrir, o Partito islamico di liberazione (Pil), si trovino in territorio afghano (…) . Era logico attendersi che i taleban avrebbero aiutato e sostenuto le opposizioni islamiche armate. Come infatti è avvenuto.
Identica situazione per quanto concerne l’Uzbekistan di Islam Karimov, dove il partito Movimento islamico dell’Uzbekistan (Miu), fuorilegge, dispone di importanti retrovie in terra afghana. I rappresentanti del Pil e del Miu hanno addirittura sedi di riferimento a Kabul (…). Ma analoghe rappresentanze diplomatiche dell’eversione islamica cinese e di quella cecena sono presenti – se non a Kabul, dove sarebbero troppo visibili – in altre città, ad esempio a Kandahar e Herat.
Altrettanto logica la decisione – congiunta e segreta – di sostenere la resistenza di Ahmad Shah Masud. Sostenerla con denaro, armi, aviazione leggera e sistema d’informazioni. Per lo meno quello che ancora la Russia è in grado di far funzionare. E’ bastato comunque questo, la perizia di Masud, la inaccessibilità della sua valle, per rendere impossibile ai taleban la proclamazione della loro vittoria finale. La retrovia di Masud – ironia della storia – è ora quella Dushanbè dei suoi fratelli tagiki che fu retrovia dei sovietici che egli combatté. E’ la resistenza più importante. Con Masud combattono piccoli distaccamenti di hazarà, nient’altro. Gli altri capi mujahidin sono dispersi e inattivi. Ma si contrappone ai taleban, a nord-ovest, anche l’uzbeko Dostum – longa manus di Karimov – in possesso di ciò che rimane dell’aviazione di Najibullah. Con queste premesse una vittoria dei taleban è del tutto impossibile.
E’ evidente che, per gli Stati Uniti, sostenere il regime dei taleban è ormai divenuto insostenibile. Esso appare impresentabile e pericoloso. Droga, diritti umani violati, inquietudine tra i potenziali partner centro-asiatici. L’apertura di un discretissimo dialogo con l’Iran di Kathami dimostra che l’opzione per una irriducibile ostilità anti-iraniana degli Stati Uniti stava per essere abbandonata dagli ultimi fuochi dell’amministrazione Clinton (resta da capire cosa vorrà fare quella di Bush junior). Ma nell’ipotesi che una tale linea continuasse, Washington avrebbe assai poco interesse a mantenere in vita un regime fondamentalista islamico a Kabul ostile a un Iran che si accinge a ripristinare buoni rapporti con l’Occidente. Dunque è sufficiente tirare le somme: perdere ogni sostegno a Washington significa la fine per un regime come quello dei taleban, in una zona d’importanza nevralgica. In ogni caso lo schieramento che portò i taleban al potere cinque anni fa non esiste più.
Inoltre, questione lasciata per ultima ma che va assumendo, nell’approssimarsi del prossimo inverno, proporzioni da tragedia biblica, è l’emergenza umanitaria. Un paese allo sfacelo e senza governo è alle prese con milioni di persone in fuga dalla fame e dalla guerra. Già l’inverno 2000-2001 ha visto morire di freddo e di stenti migliaia di donne, vecchi e bambini accampati nelle tendopoli in Pakistan, in Iran, negli stessi territori afghani dove non c’è guerra, ma dove non c’è neanche pane, né acqua, né medicine. La comunità internazionale, rimasta passiva nel suo complesso, non potrà ignorare a lungo questa catastrofe. Tutto cio’ induce a ritenere non solo che l’Afghanistan tornerà – seppure in forme parzialmente ipocrite – sotto i riflettori dei media mondiali, ma che il regime di Kabul incontrerà difficoltà crescenti, assieme ai suoi protettori di Islamabad, gli unici rimasti a sostenerlo.
Tutto ciò non significa necessariamente un suo crollo imminente. Molte restano le variabili in gioco e i tempi delle crisi orientali sono lunghi per antonomasia. Ma la distruzione dei Buddha di Bamjan non sembra essere stata solto un’ulteriore manifestazione di oscurantismo fanatico. Fosse stata solo questo non si vede perché attendere 5 anni per fare ciò che Maometto dettava anche da subito, nel settembre 1996. A molti osservatori è apparsa per quello che è: un gesto scomposto, rivelatore di una profonda crisi politica. Ma i tempi di questa crisi possono non essere compatibili con l’esigenza di tenere assieme uno Stato. Sarebbe utile se la comunità internazionale avviasse un’energica iniziativa politico-diplomatica, capace di anticipare e scongiurare esiti ancor più tragici e sanguinosi e atta a creare le premesse per una reale normalizzazione.