Conversazione Ingrao-Rossanda. “Sotto un cielo di piombo “

(…)Ingrao.
Buona parte del congresso diessino si è fatta nel fuoco dei giorni scorsi, quando è tornata in campo la questione della guerra al livello del ventunesimo secolo: la sua riabilitazione come strumento essenziale e legittimo della politica. E con essa le forme della primazia americana (o in certo modo anglo-americana) in una fase di qualche incertezza degli Usa. Non so, ma mi sembra che l’urto subito dagli Usa ha impattato con una stretta che già stava mettendo in discussione forme e livelli della new economy, dei modi con cui l’America in espansione ha gestito fasi e tempi del boom e della globalizzazione. Sino, oggi, al rispuntare della parola ‘recessione’. Il congresso diessino? E’ ridicolo pensare che esso si possa tenere al di fuori e al di là di questa trama. Buona parte delle sue risposte sono già state date: in Parlamento i Ds hanno detto sì alla guerra di Bush, e senza troppi fronzoli. Se non vado errato, nell’aula di Montecitorio, tra i diessini una sola parlamentare, Fulvia Bandoli, si è alzata a dire ‘no’; un’altra dozzina di parlamentari l’ha sussurrato copertamente nelle urne. In Senato non c’è stata neppure questa dissidenza. Quel voto in Parlamento è venuto prima del congresso e lo determina: e – del resto -su che definire una identità politica, il sentire e il pensare la società, se non discutendo nel foro pubblico sulla pace e sulla guerra? A meno che nelle prossime settimane non ci sia nei Ds una rivolta di base. Al momento non la vedo. Sento qualche sospiro.

Rossanda.
I Ds sembrano presi sempre di contropiede dagli eventi. Le elezioni regionali, e poi il 13 maggio, avevano prodotto un sussulto, una domanda sui guasti. Alla reazione di D’Alema – non c’è nulla da cambiare – la sinistra obiettava che no, che andava riformulato il problema del conflitto capitale-lavoro che era stato offuscato, e con esso l’afflato ugualitario e partecipativo, la dimensione della “politica” e del “pubblico” rispetto a quello dell'”economia” e del “privato”. Così a luglio. Ma arriva Genova, prende i Ds alla sprovvista, pare dare argomenti alla sinistra, perché poi la critica al liberismo era questo, investiva la globalizzazione. Ma la discussione è appena partita che precipita l’11 settembre, e invece di riqualificare lo scontro interno, la guerra lo azzittisce. Anzi si delinea prima la tentazione di una “union sacrée” col governo, poi un riflesso unitario dentro al partito che va in direzione di D’Alema. O no?

Ingrao
Il mondo di Genova si differenziava aspramente dai Ds (anche dalla sinistra dei Ds): per i temi che evocava, per la distanza da tutte le mozioni congressuali diessine, per la storia delle sue avanguardie e dei suoi capi. Credo che una parte della sinistra diessina fu presente, a suo modo, nei giorni genovesi. So che alla manifestazione romana di solidarietà con i no-global ci fu una notevole partecipazione del popolo diessino: con rabbia e speranza. Ma la grande parte della folla a Genova veniva da altre storie e da altre sponde. E dopo i due giorni insanguinati buona parte della dirigenza diessina si limitò a chiedere garanzie contro la persecuzione e le violenze degli apparati di governo. Non volle, non seppe o non riuscì a raccogliere la speranza e lo spazio di azione che il movimento no-global recava con sé. Non ne cavò uno scatto, e nemmeno una riclassificazione della sua analisi. Nelle rivendicazioni dei no-global c’erano acerbità e sovente anche sommarietà di analisi e di linguaggi. Anche Rifondazione a volte cade in settarismi. Ma sicuramente erano in campo sia una nuova presenza operaia -quella della Fiom -, sia una nuova generazione di militanti di sinistra, sia una nuova cultura (e pratica) di critica al capitalismo: esperienze, ripeto, forse ancora acerbe, per nulla omogenee, con storie plurime alle spalle. Che doveva fare mai una sinistra appena uscita da una dura sconfitta nelle elezioni, se non curvarsi su queste nuove figure?
La conversazione prosegue sui Ds e Genova, per poi tornare sul dopo-11 settembre.

Rossanda.
Dovremmo sforzarci di leggere anche cosa è il terrorismo di bin Laden in uno scacchiere dove l’attentato è stato sempre di casa, per la acuta conflittualità e il mancare o venir meno di una sua espressione e razionalizzazione politica. Che il fondamentalismo, più o meno o per niente terrorista, sia diventata nel decennio della globalizzazione l’ideologia della protesta non solo contro le dirigenze che chiamiamo con un eufemismo “moderate” ma contro gli Stati Uniti, sfidandoli crudelmente in casa, è un problema. Non stava nella tradizione dell’Islam, che è stato una grande cultura e più tollerante della nostra quando conquistò il Mediterraneo. Nasce forse anche dal fallimento dei tentativi di politicizzazione laica degli anni cinquanta e sessanta; c’è una responsabilità anche dell’Urss, che non abbiamo mai esaminato.

Ingrao.
Sì. E non ci si è resi conto abbastanza di che cosa poteva diventare un’organizzazione terrorista in presenza d’una tecnologia e di una comunicazione che rendono possibile l’accesso alle armi più sofisticate. L’attacco alle Due Torri è impressionante anche per questo. E’ stato sconvolgente non solo per il numero dei morti, la funebre grandiosità della rovina, l’aver colpito il cuore di New York, l’avere fatto migliaia di morti – è impallidito anche il volto di quel che ho chiamato “guerra celeste”, mirata, che prometteva di lasciare le retrovie al loro vissuto quotidiano -; sono state varcate insomma molte soglie che sembravano inviolabili. Ma sconvolge anche perché ha usato tutti i mezzi della modernità: armi, tecnologia, intelligence. Insomma bin Laden e i suoi sono un intreccio pauroso di interessi e fanatismo, di modernità e di arretratezza. Rifiutare la guerra per combatterlo domanda non solo un livello di convinzioni pacifiste difficile a reggere, ma anche un ardimento, una convinzione, una volontà di tentare il tema arduo di una risposta “non violenta” – un’alta consapevolezza sul punto cui sono arrivate le armi, la scienza dell’uccidere, dello sterminio.
Bisogna avere paura, una paura matta, delle armi iscritte oggi nella cognizione dell’uomo. E bisogna cercare ostinatamente: altri modi di regolazione dei conflitti e delle disuguaglianze feroci che il capitalismo così sofisticato del terzo Millennio reca con sé. Qui non ci soccorre neppure Marx. E forse (dico: forse) devono essere messi in campo valori ed esperienze che so soltanto evocare con il linguaggio impolverato dei sentimenti: la tutela, il rispetto della vita altrui quale essa sia, la mitezza, la debolezza.
Che cos’è il congresso diessino se non si “compromette” su questo? Se no, che intendiamo per politica?

Rossanda.
Lo scenario mondiale era già assente in tutte e tre le mozioni congressuali. E’ un cambiamento di cultura che forse si è verificata durante la Guerra del Golfo, dopo la tua uscita, con l’adesione alla nuova Nato e alla guerra del Kosovo. Certo adesso anche i Ds vanno senza una obiezione a quella che chiamano un’azione di polizia internazionale, alla quale parteciperemo, ma non sapremo nulla salvo che non ci sarà misericordia e si indennizzeranno gli afgani con 700 milioni di dollari. Che sinistra è questa che non si alza in piedi urlando?

Ingrao.
Tu chiedi: che sinistra è questa… E hai in mente i diessini. Ma la prima risposta che mi sale alla labbra è: ma questa formazione politica – i Ds – da tempo non è sinistra. E’ una forza di centro.
Non voglio fare giri di parole. Nei cruciali anni tra l”89 e il ’90 – ai tempi della Bolognina per intenderci – non avvenne solo un mutamento di nome, ma la fine di un soggetto politico. Io faticai parecchio a persuadermene. Ed esitai a lungo a uscire da quel partito, proprio perché non mi rassegnavo. E speravo ci fosse ancora uno spazio di discussione. Me ne andai quando mi resi conto che non c’era e che quel Pds non era più un partito di sinistra, ma una formazione politica di centro – per stare alla geometria politica in uso. Rimbrottarla perché non si comporta come un partito di sinistra mi sembra francamente un nominalismo, un non guardare le cose in faccia.

Rossanda.
Beh, si definiscono socialismo europeo, e così sono definiti.

Ingrao.
isognerà pure che ci intendiamo sul vocabolario. Tra loro e alcuni loro alleati è molto in uso la parola socialismo. Socialismo europeo, di cui sarebbe alfiere Tony Blair. Che abbia a che fare Blair con il socialismo passato e venturo, confesso di non comprenderlo. Mi sgomenta il vocabolario in uso nella nostra platea politica. Quanti si dichiarano socialisti in Italia? Giuliano Amato, Valdo Spini, Ugo Intini, Gianni de Michelis! E Massimo D’Alema, Giorgio Ruffolo.
Ma la parola “socialismo” evoca almeno una lettura di classe: che si creda non dico alla socializzazione dei mezzi di produzione, ma all’esistenza di un conflitto tra capitale e lavoro. E si programmi di suscitarlo e orientare – anche in un processo lungo, lunghissimo, gradualissimo quanto volete – questo conflitto e il suo esito a favore degli operai contro i padroni, per ricorrere al vocabolario di una volta.
Quanti fra i dirigenti e quadri dei Ds, da Morando a Veltroni a D’Alema a Giovanni Berlinguer accettano questo schema di lettura? E se non l’accettano, perché si rivendicano socialisti? E se Cesare Salvi o Marco Fumagalli pensano che D’Alema non lo sia, non dico lo “smascherino”, come si diceva una volta, ma spieghino, chiariscano se per loro invece dirsi socialista ha questo significato di classe oppure no, ha a che fare con lo specifico rapporto di produzione oppure no. Uscendo dalla rappresentazione della politica in termini di floricoltura: tra querce e ulivi, margherite e biancofiori, e cespuglietti vari.
Resta da chiedersi perché questa formazione di centro chiamata “Democratici di sinistra” ha approvato la scelta americana della guerra in Afghanistan. E non soltanto i leader, compreso purtroppo Giovanni Berlinguer, ma quegli strati popolari (operai, intellettuali, ceto medio borghese ecc.) che ancora oggi sono il corpo e l’elettorato dei Ds. Qui però io sono meno sorpreso di te.