Controparata pacifista:«Via da tutti i teatri di guerra»

Il tormentone sulla presenza di Bertinotti alla parata, ufficiale, ha stornato l’attenzione degli osservatori da un’altra novità, certo non secondaria della controparata di quest’anno. Non è stato indifferente, infatti, che Pisanu non sia più al Viminale ed è sfuggito agli osservatori il ricordo dell’anno scorso quando le cariche violentissime e a freddo alla piccola controparata lasciarono grave, a terra, un manifestante con la testa rotta e un altro venne portato in questura per essere identificato. E l’anno prima, ancora, erano volate manganellate contro una più cospicua manifestazione che contestava la celebrazione del 2 giugno mentre stava per fare scalo a Roma. Che ieri Gualtiero Alunni, dirigente del Prc romano ferito l’anno scorso, camminasse illeso e tranquillo (come tutti i 5-600 o mille che dir si voglia e ai quali vanno sommati i contestatori di Milano – caricati – Torino, Bologna, Venezia, Alessandria, Brindisi, La Spezia, Genova e il catalogo è incompleto) è un elemento di discontinuità notevole.
All’arrivo del piccolo corteo in Largo Torre Argentina, Lidia Menapace, partigiana e pacifista di lungo corso, ora senatrice Prc, ha preso la parola: «Dobbiamo individuare forme di studio e di elaborazione delle cose che abbiamo gridato qui. Non appena si sarà ricostituito il gruppo dei parlamentari pacifisti dobbiamo prendere contatto con voi. Bisogna riuscire a contrastare la cultura militarista». Menapace è stata l’unica ad ammettere che c’era molto più popolo dall’altra parte di Via Botteghe Oscure, che separava parata e controparata, e il suo è stato uno dei contributi più interessanti di una giornata iniziata con un sit-in tra i turisti sotto Castel S. Angelo, con i drappi arcobaleno giù dal parapetto del ponte, le donne in nero a sfoggiare una collezione di nuovi cappelli per la pace, i cartelli bilingue dei cittadini Usa contro la guerra e bandiere, cartelli e attivisti di Cobas, Rifondazione, Arci, Fiom, e lillipuziani, studenti dei collettivi, gente di Action. Si sono lette poesie contro la guerra, c’è stato un mimo e il “die-in” al suono della sirena. Tutti a terra per la mimesi del bombardamento. Poi, il corteo s’è sgranato intorno alla lunga “bandiera di bandiere” arcobaleno, percorrendo il lungotevere sulla riva destra con soste sui ponti e altre fermate sotto Regina Coeli e il palazzo del Guardasigilli in Via Arenula per non denunciare il sovraffollamento record carcerario e l’urgenza di amnistia e indulto.

La piattaforma della controparata è “senza se e senza ma” ed è stata scritta al quarto social forum europeo di Atene. Ritiro da tutti i teatri di guerra, Afghanistan compreso, smilitarizzazione delle basi e riconversione delle fabbriche d’armi, fine dell’occupazione della Palestina, disarmo nucleare e fine delle minacce all’Iran. E c’è, naturalmente, la richiesta – accolta da molti dei parlamentari presenti – che venga abolita l’esibizione delle truppe in armi. «Se è un simbolo è un simbolo atroce», spiega il portavoce nazionale dei Cobas, Piero Bernocchi, polemizzando con chi, in questi giorni, ha voluto spezzare una lancia in favore delle missioni all’estero: «Sono tutt’altro che pacifiche. E i parlamentari che sono qui saranno conseguenti?». Di senatori e deputati in piazza ce n’erano parecchi. Il più “alto in grado” era Paolo Cento (soprannominato “Padoa Piotta”), sottosegretario all’economia, seguito da esponenti Prc (a partire dai capigruppo, Migliore e Russo Spena), verdi e Pdci. Mentre sul ritiro dall’Iraq sembra profilarsi un accordo «alla Zapatero», dice Russo Spena, sull’Afghanistan la questione è più complessa: «Va preso atto del bilancio fallimentare della missione che però è una missione Onu ed è divisa in 2 parti. Una, “enduring freedom”, militare da cui bisogna ritirarsi; l’altra di ricostruzione – spiega ancora Russo Spena, presidente dei senatori Prc – da ridiscutere. Ma è decisivo il livello europeo visto che Francia, Germania e Spagna stanno inviando nuove truppe».

«Mica tutti i soldati devono venire via, i 4 o 5 carabinieri dell’ambasciata possono restare». Prima ci scherza su, Fabio Alberti, presidente di “Un Ponte per”, poi espone tutti i suoi dubbi sulla qualità del ritiro («Si può andar via e mantenere il sostegno all’occupazione!») e sull’ambiguità degli “aiuti” («si dovrebbe dire “risarcimenti” per una guerra illegale») o dei riferimenti ai paesi arabi moderati «che violano sistematicamente i diritti umani».

E veniamo al tormentone Bertinotti. Rizzo (Pdci), che partecipò al governo che bombardò Belgrado, si rammarica che il presidente della Camera non sia a Ponte S. Angelo. Caruso e Vitaliano Della Sala, al suo posto avrebbero disobbedito. Marco Ferrando, da poco uscito dal Prc, critica la «separazione tra l’anima e il corpo (la prima in piazza, l’altro sul palco delle autorità)» e nota che la «ricollocazione del partito nel governo» sia «un tradimento delle ragioni per cui nacque Rifondazione». «E’ una polemica stucchevole – trova Gennaro Migliore, capogruppo Prc a Montecitorio – per Bertinotti parla la sua storia di una vita. La figura istituzionale che ora incarna non è la rappresentazione del partito che è qui». Dove è sempre stato.