Contro l’imperialismo linguistico, ma senza latino

Si contano sempre più numerose le prese di posizione a favore di una lingua di garanzia in grado di sostituirsi all’inglese nei rapporti diplomatici tra le diverse nazioni: una lingua-ponte che possa contrastarlo sia dal fronte propriamente politico, che guarda al suo dominio planetario come a una pericolosa propaggine dell’imperialismo americano, sia da quello più direttamente linguistico, che vi scorge invece una minaccia alla sopravvivenza delle singole lingue nazionali.
In tempi recenti, al fine di favorire lo stabilirsi di un’autentica democrazia della comunicazione, si sono così riaffacciate varie ipotesi di promozione di un’apposita lingua artificiale da contrapporre all’inglese. Che potrebbe essere l’esperanto, escogitato da Ludovico Lazzaro Zamenhof alla fine dell’Ottocento come tante altre lingue artificiali basate per lo più sul latino (con il supporto del francese e del tedesco, le lingue più parlate allora in Europa), oppure, nella ristretta ma decisiva prospettiva eurocentrica, il più moderno europanto inventato da Diego Marani, traduttore presso il Segretariato generale del Consiglio dei ministri dell’Ue, nonché scrittore di romanzi. Rispetto alle 16 regole dell’esperanto (che è una lingua da studiare, per quanto elementare) l’europanto, nelle intenzioni di Marani, si imparerebbe senza bisogno di norme: è sufficiente masticare un po’ d’inglese e mescolarlo a qualche tratto di almeno altre due lingue europee e il resto, secondo il suo ottimista inventore, viene da sé.
L’ultima amena provocazione in materia, perché di questo sostanzialmente si tratta, viene ora dalla Santa Sede e se ne è fatto promotore Mario Gabriele Giordano sulla terza pagina dell’Osservatore Romano del 12 agosto. Secondo il quale dovrebbe essere il latino a farsi carico di rimpiazzare l’inglese nel contesto delle relazioni tra gli Stati europei. Perché l’antica lingua di Roma soddisferebbe perfettamente quell’«esigenza di individuare un idoneo strumento di comunicazione internazionale posta in generale dal processo di globalizzazione e in particolare dalla realtà dell’Unione europea».
Siamo alle solite. Perché a essere invocato è un universalismo cristiano che continua a pretendere di parlare al singolare in un’Europa plurale di cui rappresenta ormai soltanto una delle tante voci, in un insieme armonico sempre più difficile da decifrare e sempre più contraddistinto dalla mescolanza piuttosto che dall’identità e dall’alterità. L’io culturale e religioso occidentale ha cessato da tempo sia di essere se stesso sia di diventare un altro da sé; esso è piuttosto, sempre più, anche un altro; ne rappresenta un bell’esempio lessicale l’Eurabia tanto paventata da chi, come Marcello Pera, sente l’identità europea continuamente minacciata e messa sotto tiro dal pericolo islamico.
I fatti linguistici non eccepiscono alla regola. Nemmeno il progressivo incremento della presenza in Europa di lingue altre negli ultimi anni (per l’aumentato numero di parlanti delle varie comunità presenti da tempo sul suolo europeo o, in qualche caso, per l’arrivo di nuove varietà, parlate dagli immigrati di più recente stanziamento nei diversi paesi) basterebbe a esaurire un fenomeno che si presenta sempre più frequentemente come una sostanziale mescolanza tra due o più varietà intersecate in modo anche complesso. La stessa lingua inglese ha ultimamente acquistato posizioni scendendo a patti con le lingue via via incontrate: dal japlish al cinglish, dall’englog (l’inglese parlato nelle Filippine) al taglish (che mescola inglese e tagalog), dallo spanglish al globish, è tutto un fiorire di designazioni accomunate dalla presa d’atto di una sostanziale ibridazione.
Che mondo sarebbe, d’altronde, quello in cui tutti dovessero parlare un giorno un’unica lingua? Secondo un noto linguista inglese, David Crystal, un mondo nel quale il genere umano, fra cinquecento anni, si potrebbe trovare effettivamente a vivere. Sarebbe in questo caso senz’altro, come sostiene Crystal, una catastrofe ecologica di dimensioni inimmaginabili ma mi riesce francamente molto difficile pensare a uno scenario del genere. Preferisco continuare a guardare alla diversità linguistica come a un patrimonio inestimabile al quale una parte almeno della nostra specie non sarebbe disposta a nessun costo a rinunciare. Sarà forse anche per questo che il 47,6% degli abitanti di New York parla in casa propria una lingua che non è l’inglese: è consolante pensare che nella Grande Mela, nel cuore stesso della grande nazione americana, l’inglese non riesca facilmente a varcare la soglia di casa.
Ha ragione Giordano nel dire che l’inglese è una lingua nazionale la quale, «come in passato quella francese, si è imposta per ragioni fondamentalmente politiche ed economiche ed è destinata al ridimensionamento con il venir meno di tali ragioni». Il suo attuale predominio su scala mondiale, perciò, durerà il tempo necessario ma non durerà in eterno. Se proprio lo si vuole combattere lo si faccia attingendo alle risorse linguistiche di cui ciascun paese e ciascun cittadino dispongono; le boutade dei creativi (Marani) e degli anacronisti (Giordano) rispediamole al mittente.
Il timore peraltro, a sentir parlare di rilancio del latino, è quello di un ritorno di fiamma del superiore latinorum esibito dagli Azzeccagarbugli più che dai poveri curati ai danni di tanti indifesi Renzi Tramaglino. Sarebbe come cadere dalla padella del globalismo americano nella brace dell’ecumenismo interessato dei teocon. Fintantoché anche papa Benedetto XVI si lascerà sfuggire un know-how, come nell’intervista di qualche giorno fa alle reti tedesche, possiamo però continuare a dormire sonni tranquilli. A differenza di Giordano, che a sentire quell’espressione provenire dalla bocca del papa avrà cominciato, da bravo cristiano, a girarsi e rigirarsi nel sonno.

*Linguista e critico letterario, Università di Cagliari