In attesa che Bruno Vespa organizzi una nuova udienza televisiva del contro-processo Imi-Sir/Lodo Mondadori (contro-processo nel quale Cesare Previti recita il ruolo dell’accusa e del giudice e i magistrati milanesi siedono sul banco degli imputati), conviene tentare un primo bilancio della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Milano e delle violentissime polemiche scaturite dalle sue motivazioni, rese pubbliche mercoledì scorso.
Cominciamo con lo sgomberare il campo da qualsiasi dubbio in ordine alla fondatezza dell’impianto accusatorio su cui si erano basati i pm Boccassini e Colombo. Con buona pace degli imputati e dei loro padrini politici (i quali hanno ovviamente continuato a parlare di «devastante mancanza di prove» e a sostenere la tesi del «teorema politico-giudiziario»), le motivazioni della condanna in primo grado dei giudici Squillante e Metta, degli avvocati Previti, Pacifico e Acampora e degli eredi Rovelli mostrano la solidità delle accuse e anzi forniscono ulteriori argomenti a loro sostegno. Non c’è solo la documentazione del vorticoso giro di denaro passato, secondo i magistrati milanesi, per le mani del trio Acampora-Pacifico-Previti e destinato a compensare i giudici corrotti per l’opera di arbitraggio infedele prestata in due importanti vicende giudiziarie a cavallo tra gli anni Ottanta e lo scorso decennio (67 miliardi per l’indebito risarcimento degli eredi di Nino Rovelli, costato allo Stato circa mille miliardi di lire; 3 miliardi per l’annullamento di un primo giudizio arbitrale favorevole alla Cir di Carlo Debenedetti e per la sua sostituzione con un secondo “lodo” che aggiudicò la Mondadori – e, in un primo momento, anche l’editoriale Repubblica-l’Espresso – alla Fininvest di Silvio Berlusconi). C’è anche la sconvolgente prova filologica della tecnica impiegata dal giudice Metta, materiale estensore di entrambe le sentenze addomesticate. Il quale, stabilito che il proprio ruolo fosse quello del garante degli interessi dei Rovelli e di Berlusconi, non si prese nemmeno la briga di operare in autonomia nella elaborazione delle decisioni e si limitò a copiare, letteralmente, le indicazioni che gli provenivano dall’esterno, dal trio dei «difensori occulti» della Sir e della Fininvest.
C’è poi la questione delle responsabilità penali di Silvio Berlusconi. Il quale non figura tra i condannati in questo processo perché il reato di cui era accusato (non la corruzione giudiziaria, ma la corruzione semplice) si è nel frattempo prescritto. Ebbene, vanno a questo proposito fissati con chiarezza due punti. In primo luogo, è provato che i 3 miliardi che servirono ad ottenere che la Mondadori venisse aggiudicata alla Fininvest provenivano da un conto occulto della Fininvest medesima, di proprietà dell’on. Berlusconi. In secondo luogo è indiscutibile che l’unico soggetto che si giovò della corruzione del giudice Metta in occasione della vicenda Mondadori è, ancora una volta, la Fininvest (mentre a uscirne con le ossa rotte non fu soltanto la Cir, ma anche noi tutti, considerato che, in forza di quella sentenza, la più grande impresa editoriale del paese veniva aggiudicata a un imprenditore che già allora controllava un impero televisivo).
Si dirà: la sentenza milanese, tuttavia, non dichiara Berlusconi mandante della corruzione giudiziaria occorsa per aggiudicare alla Fininvest la casa editrice di Segrate. Qui è bene chiarirsi. Il Tribunale di Milano non avrebbe potuto enunciare un giudizio di condanna nei confronti di un soggetto ormai uscito dal processo. Resta che la dichiarazione del non luogo a procedere per effetto della prescrizione significa che la corte dispone di sufficienti elementi di colpevolezza, e quindi equivale a tutti gli effetti (salvo l’irrogazione della pena) a una sentenza di condanna. Del resto solo così si spiega la guerra scatenata dal premier contro i giudici milanesi. Soltanto la sua consapevolezza di essere coinvolto a pieno titolo in questa colossale vergogna consente di comprendere le reazioni a caldo di Berlusconi («teoremi e indizi messi insieme alla bell’e meglio», «surplus di offese e giudizi gratuiti») dopo la pubblicazione delle motivazioni delle condanne di Previti e degli altri imputati. Se questo è vero, l’editoriale di Sergio Romano apparso sul Corriere della Sera dell’altroieri si commenta da sé. Come si può arrivare a dire che, per aver fatto riferimento agli attacchi e alle intimidazioni subite nel corso di tre anni, i giudici di Milano risulterebbero coinvolti in «un conflitto d’interessi simile a quello di Silvio Berlusconi»? Abbiamo letto e riletto queste parole e non troviamo altra spiegazione se non il rifiuto pervicace, da parte di un importante settore della sedicente borghesia italiana, di prendere atto del degrado a cui questo paese è giunto per effetto dell’impasto di potere e illegalità in cui si radica e consiste il berlusconismo.
Detto questo, il peggio non sta nella rabbiosa reazione degli imputati e dello stesso presidente del Consiglio subito dopo la pubblicazione delle motivazioni della sentenza milanese. Bensì nella risposta che il partito del premier ha dato per bocca dell’on. Bondi a mente fredda, dopo ventiquattr’ore di attenta riflessione. Com’è noto, Forza Italia intende proporre l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta «per accertare se ha operato e opera tuttora nel nostro paese un’associazione a delinquere con fini eversivi, costituita da una parte della magistratura, con lo scopo di sovvertire le democratiche istituzioni repubblicane». Alla domanda se tale iniziativa sia da porre in connessione con il processo di Milano, l’on. Bondi non ha nemmeno accennato manovre diversive. Ha risposto che sì, «è una ritorsione». E ha poi aggiunto, a scanso di equivoci, di ritenere «un dovere morale reagire e rispondere colpo su colpo alle ritorsioni di questo manipolo di magistrati che minaccia la democrazia».
Bene. La questione, così stando le cose, è – o dovrebbe essere – sufficientemente chiara. Al di là del giudizio sulla sconvolgente sortita dell’on. Bondi (che ci appare a tutt’oggi l’espressione più nitida della vocazione eversiva – autenticamente piduista – di questo governo, e che a nostro giudizio attende urgentemente una replica adeguata da parte del presidente della Repubblica e del Csm), ci pare che due errori non debbano essere compiuti. Sarebbe sbagliato, da una parte, dinanzi all’enormità di tali attacchi, vedere soltanto questo versante della devastazione provocata dal governo in carica, devastazione che coinvolge invece anche altri non meno cruciali versanti, a cominciare dall’economia nazionale (entrata ormai anche ufficialmente in recessione), il cui stato comatoso colpisce già pesantemente il potere d’acquisto di salari e stipendi e compromette le prospettive di sviluppo del paese. Non è difficile prevedere che si cercherà di fare ulteriormente pagare la crisi al lavoro e ai ceti subalterni in termini di nuovi tagli alla spesa (sanità, pensioni, scuola) e all’occupazione. Sarebbe dunque grave se le forze politiche e sociali di opposizione dimenticassero quest’altra partita per concentrarsi soltanto sugli attacchi alla magistratura e alla Costituzione. Senza con ciò sottovalutarne la crucialità, l’emergenza democratica va invece assolutamente collegata alle questioni sociali – come pure alla mobilitazione contro le sciagurate scelte del governo Berlusconi sul terreno della politica estera – affinché l’autunno si apra all’insegna del più vasto e organico movimento di lotta.
Ma sarebbe sbagliato anche un atteggiamento opposto, quello di chi – forse per la condivisibile preoccupazione di allontanare da sé il sospetto di volere strumentalizzare le vicende giudiziarie del premier – tace non solo sulla gravità degli scenari dischiusi dalla sentenza del processo di Milano, ma anche sulla pericolosità degli attacchi scatenati dal partito di maggioranza relativa contro la magistratura. Qui non si tratta di aprire dibattti «su ogni motivazione di sentenza», ma di sapere e volere leggere, in una vicenda assolutamente esemplare, i caratteri di un ceto politico e le logiche strutturali di un sistema di potere. Né si tratta di condurre la battaglia politica per mezzo delle sentenze giudiziarie, ma di sapere cogliere, nelle pagine di una sentenza, quanto essa rivela a proposito della degenerazione della politica e della pervasività di interessi privati e malavitosi nel tessuto delle istituzioni democratiche. Ha davvero ragione il nostro compagno Giuliano Pisapia, che questo processo ha vissuto dall’interno e che ne conosce quindi come pochi altri ogni singolo aspetto. Questa sentenza «ci fa capire da chi siamo governati». È così. Sta a noi e a tutte le forze democratiche e di progresso del paese mettere a frutto queste indicazioni.