I recenti interventi del segretaro generale della Cgil Guglielmo Epifani sulle misure per contrastare il declino dell’economia e il dibattito che ne è scaturito sul manifesto, mettono allo scoperto un nodo politico cruciale: le posizioni di Epifani in materia di finanza pubblica e di politiche per la competitività affondano le loro radici in un modo di vedere della destra liberista, il «paradigma della scarsità e della sana finanza pubblica». Di cosa si tratta? È l’idea secondo la quale le risorse economiche e finanziarie a disposizione dello Stato sono regolate dal principio della scarsità come accade a una famiglia che può aspirare a standard di consumo elevati ma poi deve fare i conti con i limiti del reddito disponibile; può indebitarsi ma successivamente dovrà risparmiare per rimborsare il debito. Analogamente, questa visione asserisce che i principi del buon governo debbano prevedere che lo Stato spenda entro i limiti della raccolta fiscale, tenendo il suo bilancio tendenzialmente in pareggio; ed inoltre, se si fosse precedentemente indebitato, dovrà in seguito rimediare attraverso opportuni risparmi, ossia tramite i cosiddetti «avanzi primari».
Aderendo a questa dottrina, il vertice della Cgil è piombata in un paradosso: esaltando i vincoli di compatibilità e esortando al rigore si è trovata a svolgere una critica all’operato del governo Berlusconi che non può che definirsi «conservatrice». Ma dove mai saranno finiti i sei o sette decenni di insegnamenti keynesiani, postkeynesiani e neokeynesiani? Come si può dimenticare che il debito pubblico di un Paese è come un contratto tra la mano destra e la mano sinistra ed è quindi essenzialmente questione di assetti distributivi? Non è solo Epifani a dar prova di conservatorismo. Siamo oramai avvezzi all’angosciata attenzione dei leader «progressisti» alla politica di pareggio delle finanze pubbliche: gli esponenti moderati del centrosinistra hanno costantemente esortato a politiche di contenimento e di rientro dal debito; hanno plaudito e fatto propri i vincoli di Maastricht?
Ma restiamo su Epifani. Le occasioni che ha avuto per dar prova di fede nel «paradigma della scarsità e della sana finanza pubblica» sono innumerevoli. Tanto per fare qualche esempio recente, si può prendere spunto dal convegno cui recentemente Galapagos e Cavallaro hanno fatto riferimento e dai commenti alla revisione del Patto di Stabilità e al decreto legge governativo sulla competitività. In quelle sedi il vertice Cgil ha denunciato la «lettura strumentale della revisione del Patto di Stabilità» condotta dal governo e ha gridato l’allarme sull’«ulteriore sfascio nei conti pubblici». D’altronde anche la contrarietà a politiche di sostegno della domanda per sconfiggere il declino e il favore espresso per le politiche dell’offerta deriva, almeno in parte, da quella impostazione paradigmatica. Si badi bene: la critica di Epifani a programmi di espansione della domanda privata mediante detassazioni convince pienamente. Dove non si può seguirlo è quando egli afferma che una politica di espansione della domanda non è necessaria. Il ristagno della domanda privata (di beni di consumo e di investimento) è evidenziata da tutte le statistiche e nessuno può seriamente affermare il contrario. Tuttavia, poiché il segretario della Cgil sa bene che una politica progressista di espansione della domanda pubblica cozza con i principi della «finanza sana», allora tale politica diviene a suo giudizio non solo inutile ma pure dannosa. E quindi dovremmo dedicarci a una politica dell’offerta, a qualcosa che insomma dovrebbe compiersi rosicchiando fondi da vari capitoli di bilancio. Insomma, una politica «a costo zero», nel rispetto della «finanza sana».
La posizione di Epifani disorienta anche per un altro motivo: smarrisce completamente la relazione tra questione salariale e declino. Non vi è una questione salariale oggi? Ed essa non è in buona misura il frutto dell’accordo del luglio 1993, con il suo meccanismo della inflazione programmata (sempre – guarda caso – sottostimata dal governo) e del doppio livello di contrattazione? I bassi salari reali non hanno forse aggravato il declino rendendo stagnante la domanda di merci e servizi? E non hanno contemporaneamente indicato ai nostri imprenditori la via fallace della competitività da costi anziché la strada degli investimenti e delle innovazioni?
Epifani parla di un rilancio della politica dei redditi, ma è chiaro che quel che serve oggi è una uscita «da sinistra» dagli accordi del `93; un rafforzamento del contratto nazionale e una spinta sui salari reali anche oltre il limite degli incrementi di produttività. Il tutto, si badi, senza che si diano ulteriori spazi alle logiche della flessibilità e all’approfondimento dei differenziali territoriali salariali.
Non stupisce affatto che, a parte qualche voce isolata nella sinistra radicale, le posizioni alla Epifani abbiano lasciato nientemeno che a Berlusconi il monopolio esclusivo della critica agli «eccessi» liberisti del Patto di Stabilità. Berlusconi è uscito vittorioso dalla revisione del Patto mentre sul versante progressista l’imbarazzo è palese. Ma ora che il Patto di Stabilità è stato revisionato – attutendone i vincoli, ridimensionando il ruolo della tecnocrazia e restituendo un minimo di peso alla politica – sarebbe ora che Epifani, e con lui i tanti seguaci «progressisti» del «paradigma della scarsità e della sana finanza pubblica», ammettano gli errori del passato.