Contro gli USA un nuovo asse del petrolio

Quindici anni e due guerre dopo l’inizio di un’offensiva politica mirata
a costruire condizioni di assoluta sicurezza per i suoi bisogni energetici,
Washington si ritrova con ben due Stati petroliferi nelle mani di una leadership populista e nazionalista.
C’è infatti una nuova linea tracciata dal voto presidenziale iraniano: la connessione fra due nazioni lontanissime fra loro, l’Iran e il Venezuela. E’ un legame simulato molto bene dalle enormi differenze fra le due società, ma la sostanza è la stessa: il conservatore religioso Ahmadinejad e il militare golpista e socialista Chavez sono arrivati al potere sulla stessa onda. E’ una deriva nazionalista e populista, al cui centro c’è il petrolio; un trend politico nuovo che promette grande sconvolgimenti nelle relazioni fra i Paesi – in particolare se, come già si profila, Putin se ne farà sostenitore e gran maestro.
L’Iran possiede il 7 per cento delle riserve globali di petrolio, e il Venezuela ne è il quinto produttore mondiale. In entrambi i Paesi, a dispetto delle differenze di clima e di cultura, l’oro nero è il catalizzatore di nuovi umori popolari: la ricchezza del petrolio non distribuita ha alimentato, nelle polverose periferie di Teheran come sulle colline intorno a Caracas, un forte revanchismo sociale, esacerbato da uno sviluppo consumistico delle élite; e il petrolio è divenuto il simbolo della identità nazionale umiliata, con il conseguente scontro diretto con gli Stati Uniti.

L’accostamento fra Caracas e Teheran può sembrare fantapolitica. In realtà fra le due capitali si è da tempo stabilita una relazione, parte di una ridefinizione di molti giochi intorno all’energia, dopo la Guerra del Golfo. L’ex presidente iraniano Khatami ha visitato il Venezuela tre volte l’anno scorso, l’ultima solo pochi mesi fa. Chavez, a sua volta, è al lavoro per trovare nuovi accordi e alleati politici: in particolare Russia, Cina e India, dove il generale ha trascorso nel marzo di quest’anno quattro giorni. Cina e India sono oggi i Paesi con il maggiore fabbisogno di energia grazie al loro impetuoso sviluppo economico. L’India ha firmato in gennaio un accordo di importazione di gas con l’Iran del valore di 40 miliardi di dollari, e guarda con interesse agli spezzoni del colosso Yukos smembrato da Putin. La Russia, appunto, dopo avere spezzato il colosso Yukos, sta di fatto rinazionalizzando l’energia.

Il senso del gioco che si sviluppa in questa rete di contatti è abbastanza
chiaro: la guerra in Iraq non ha fermato la turbolenza in Medio Oriente,
non ha dunque per ora stabilizzato il mercato del petrolio, in compenso ha rilanciato la tensione contro gli Stati Uniti. Nell’ultimo anno è così cresciuto un fronte di ricerca di autonomie energetiche e dunque politiche da parte di grandi nazioni. E’ uno schieramento che ha già nella Russia il suo più importante sostenitore – Mosca si è impegnata poche settimane fa a fornire all’Iran il liquido per il funzionamento del reattore nucleare, in aperta sfida agli Usa – cui si aggiunge oggi con Teheran e Venezuela il sostegno del radicalismo delle adunate di massa. Per gli Stati Uniti si configura un inaccettabile gioco.