Il professor Pietro Ichino, capofila dei fustigatori di quei «grandi fannulloni» dei dipendenti pubblici, ha finalmente trovato il suo paradiso: è una cittadina in provincia di Napoli, si chiama Giugliano. Il sindaco ha deciso di «efficientare» il controllo sugli impiegati comunali, e ha così disposto la sostituzione del classico tesserino magnetico con un più efficace metodo di schedatura: le impronte digitali. Il cartellino, si sa, lo puoi passare al collega, che lo timbrerà al posto tuo mentre prendi il caffè o fai lo shopping. Al contrario, sapere che il «grande fratello municipale» ha nella sua banca dati il tuo codice più sensibile e personale – l’impronta digitale – ti farà stare in un’ansia continua, costringendoti al lavoro. Come fosse una prigione.
Insomma, in Italia ci si abitua a tutto e chissà che gli impiegati giuglianesi non siano i pionieri di un nuovo uso del lavoro, che permetterà al padrone di schedarti nell’intimo. D’altra parte, un po’ in tutta Europa accade già che i colossi dei supermercati tengano all’uscita degli ispettori in incognito pronti a perquisire le borsette e le automobili delle cassiere, quando meno se lo aspettano, per verificare che non abbiano rubato uno snack o un pacco di pannolini. Ma non si è interessati a recuperare i pochi euro del presunto furto, davvero nulla rispetto ai bilanci miliardari delle multinazionali: in realtà in gioco è il controllo, l’ansia messa addosso al dipendente, la voglia di umiliarlo perché non osi pensarsi pari al padrone.
Ichino ieri affermava, entusiasta per l’annuncio del sindaco di Giugliano, che prendere le impronte non viola lo Statuto dei lavoratori né la privacy. Vorremmo segnalare al professore, che è un giuslavorista, una recente Deliberazione del Garante della privacy (numero 53 del 23 novembre 2006, «Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori»), dove al comma 4 si dice che «l’uso generalizzato e incontrollato di dati biometrici, specie se ricavati dalle impronte digitali, non è lecito». Urge un ripassino.