Parto da un’apparente ovvietà. Abbiamo vissuto tre anni di eccezionali sommovimenti, in parte colpevolmente imprevisti, in parte maggiori delle previsioni possibili. La teoria e poi la pratica della guerra preventiva, ancora non conclusa, strumento e proposta di un nuovo assetto globale; la sconfitta del centro-sinistra in gran parte dei paesi europei, cui non è però seguito un serio tentativo di revisione culturale, politica o organizzativa; una crisi economica non ancora pienamente spiegata, non ancora superata, ma che comunque mette in discussione, anche nella parte meno ottusa delle forze dominanti, la validità delle politiche liberiste e della globalizzazione reale; infine l’insorgere di una contestazione di massa straordinaria per vastità, tematiche, tensione ideale e novità di forme organizzative, ma ancora diseguale, intermittente, incerta nei risultati. Di converso, si è manifestata e affermata in forme aperte una nuova destra che però, non a caso, si è subito trovata anch’essa in difficoltà nel governare e per questo è spinta ad alzare ancor di più il livello dello scontro. Tutti fenomeni e tendenze di carattere mondiale e verosimilmente di lungo periodo ma che in Italia hanno avuto una evidenza particolare e un impatto politico e sociale maggiore e più diretto.
Ora stiamo però arrivando a un punto cruciale. Non mi spingo ad affermare che un ciclo si è chiuso: perché crisi e instabilità sono ancora in campo, l’alternativa tra varie prospettive non ancora risolta, la partita resta aperta. Anche, anzi soprattutto, nella crisi però molte cose si muovono, molte battaglie si vincono e si perdono, il quadro continuamente si ridefinisce. Ed è ora, e nel prossimo futuro, che questo sommovimento è destinato a un primo, forse provvisorio e parziale, non perciò meno decisivo, assestamento. Anche in questo caso, l’Italia costituisce un esempio anticipatore.
Negli ultimi mesi sono intervenute infatti novità rilevanti generalmente sottovalutate, alcune rimosse, e altre appena intraviste, non meno importanti.
Ci sono state elezioni, amministrative e parziali ma molto estese e politicizzate, con risultati complessivamente significativi. C’è stato un referendum, su un tema già in sé importante ma che aveva assunto un ancor maggiore significato politico e simbolico, che è stato invece sconfitto duramente.
La crisi economica non solo è continuata, ma dà segni di aggravamento, rivela, in Italia più che altrove debolezze strutturali, e pesa, in Italia più che altrove, per l’anomala e insuperata dimensione del debito pubblico. Essa ha spinto il padronato non solo a sostenere le stesse posizioni di attacco alla spesa sociale e al sistema pensionistico che circolano ovunque in Europa, ma a portare a fondo, nelle parole e nei fatti, l’attacco diretto all’intero sistema contrattuale. La durezza dello scontro ha stimolato i lavoratori e il maggiore sindacato non solo a una resistenza forte e condivisa, ma anche a porre in qualche caso sul tappeto il tema offensivo della lotta alla precarietà, senza però trovare un adeguato sostegno politico, trovandosi ora in difficoltà quando si arriva alla verifica dei risultati raggiunti.
Il movimento della pace e quello per il rispetto della legalità hanno mostrato di essere ancora attivi e ampi. Ma al primo è venuta meno, nonostante un dopoguerra confuso e sanguinoso, la leva – cioè una guerra incombente o in atto –, che gli consentiva di trascinare tanta parte dell’opinione pubblica e incalzare le forze politiche di opposizione per imporre scelte inequivocabili; al secondo è venuto meno (con il declino del fenomeno Cofferati) il riferimento necessario per unire alla lotta contro Berlusconi la richiesta di significative novità nella linea e nei gruppi dirigenti dei maggiori partiti del centro-sinistra. Nella stessa congiuntura, sul piano specificamente politico, si sono manifestate nella maggioranza di centro-destra divisioni profonde e ripetute, spesso reali, spesso ricercate che a volte mimano l’eventualità di una crisi: il timore di andare verso una sconfitta elettorale le alimenta, e insieme le costringe a rientrare.
Sul versante dell’opposizione si è operato invece un importante passo avanti: non solo è emersa la comune convinzione che per vincere le elezioni occorre, ed è possibile, raggiungere una larga unità tra tutte le forze dell’Ulivo e Rifondazione comunista, ma si è ascoltata l’affermazione che tale unità debba andare oltre la forma della pura desistenza, assumere le caratteristiche di un vero accordo di governo. Anche se per ora resta indeterminato il come e il quando.
Novità, come si vede, da cui è difficile trarre una previsione generale, tanto più ricavare una linea di condotta per il futuro pio meno ravvicinato. Non solo perché hanno un segno diverso tra loro – e per comporre un quadro occorre valutarne singolarmente il peso e l’evoluzione – ma anche perché ciascuna di esse presenta facce molteplici. Bastano però – a me pare – per definire e ordinare alcuni interrogativi, un’agenda di problemi di cui i partiti della sinistra dovrebbero discutere subito e che invece rinviano, o volutamente rimuovono. Almeno su tre di questi vorrei sollecitare un confronto.
Quanto è elevata la probabilità che il governo e la maggioranza cadano sul serio nel fosso, alle prossime elezioni politiche o anche prima? Con quali conseguenze e a quali condizioni?
Quanto e su quali basi politiche è possibile che una coalizione che gli si opponga risulti sufficientemente unita e convincente per sconfiggerlo in modo duraturo e con quale intesa programmatica che sia sufficientemente chiara per reggere almeno le prime prove di governo e conservare il consenso del proprio elettorato?
Quanto è lecito sperare che, in caso positivo, poi proceda un’esperienza riformatrice in grado di affrontare problemi e scelte che già ora sono ben più aspre e più contrastate che nel 1996?
Interrogativi distinti e al tempo stesso connessi: distinti perché dalla risposta all’uno non discende necessariamente una risposta all’altro; connessi perché rispondere, o anche solo seriamente riflettere su di uno, può offrire la pista e il coraggio per affrontare il successivo.
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Sul primo interrogativo ci sono a mio parere dati sufficienti per azzardare una previsione fondata.
Il governo Berlusconi non si consoliderà in un regime; ci proverà e farà danni, ma alla fine crollerà. Già l’analisi dei dati elettorali – fatta da Giuseppe Chiarante nel numero di luglio di questa rivista – ha mostrato che se si considera non chi ha vinto e chi ha perso città per città, ma la percentuale di voti ottenuta ovunque da entrambi, il centro-destra è complessivamente arretrato (poco in Sicilia, molto di più nel resto del paese). E poiché nel 2001 la distanza in termini di voti era solo dell’1%, si può arguire che già in questo momento nel paese reale il governo non è più maggioranza (del resto i molteplici successivi sondaggi, per una volta convergenti, lo confermano).
In sé questo risultato non è conclusivo. Perché troppo tempo ancora ci divide da elezioni politiche generali, troppe cose possono e debbono ancora accadere; e soprattutto perché lo spostamento è avvenuto finora principalmente per un ricambio nel settore dell’astensionismo anziché per una nuova scelta di campo nell’elettorato attivo e, infatti, in termini assoluti, pressoché tutti i partiti hanno perduto voti.
Essenziale, dunque, per riconoscergli un carattere duraturo, è capire cosa lo produce. Nel primo anno di legislatura si era mantenuta una stabilità dell’elettorato, malgrado gli scandalosi interventi rivolti a salvare Berlusconi dai guai giudiziari. Quei guai, gran parte anche dei suoi stessi elettori li conosceva da tempo, e pochi erano quelli che li consideravano frutto di un’azione persecutoria e senza fondamento dei magistrati. Semplicemente, non li consideravano dirimenti nella scelta di voto, e tanto meno sufficienti per revocare consenso al governo appena eletto. Al nuovo governante-imprenditore non chiedevano tanto se aveva scrupolosamente rispettato la legge, né la rinuncia a passarne indenne tra le maglie; chiedevano risultati nella sua nuova impresa.
Le cose hanno cominciato a cambiare per due fattori potenti. Da un lato una guerra, decisa con argomenti truccati e sostenuta da una arrogante pretesa imperiale, e insieme una crisi economica che contraddiceva le previsioni e le promesse su cui Berlusconi aveva costruito la sua fortuna politica, e gli sottraeva le risorse per tenere unito il suo blocco sociale. Dall’altro, e conseguentemente, l’insorgere di un’opposizione dal basso, militante, forte di ragioni e animata da valori, che si liberava da uno stato d’animo di rassegnazione, criticava scelte passate dei propri gruppi dirigenti, ma trovava anche un punto di riferimento in una loro parte (in particolare la Cgil) e un’eco nel mondo cattolico.
A questo punto anche il tema delle vertenze giudiziarie cambiava carattere, perché chi è disposto a perdonare violazioni del diritto a un imprenditore di successo diventa più esigente verso un imprenditore che fa debiti. E qualsivoglia potere televisivo perde efficacia quando la demagogia confligge con i fatti e contraddice il senso comune. Oscillazioni, incompetenza, arroganza diventano così al tempo stesso conseguenze e moltiplicatori di un discredito. E, soprattutto sul piano elettorale, il vantaggio decisivo è di avere in campo un esercito convinto e attivo che influisca sulla gran massa degli incerti: in questa fase, per lo meno contro Berlusconi, c’è.
Può darsi che in certi settori o su certi problemi una tale spinta perda di intensità, o si offrano congiunture diverse. Ma non mi pare probabile che i suoi elementi portanti vengano prossimamente meno. Al contrario, proprio la probabilità di una sconfitta elettorale spinge le varie forze della maggioranza a differenziarsi tra loro, non tanto da provocare presto nuove elezioni (che anzi più che mai hanno ragione di temere) ma per ritagliarsi un proprio specifico spazio di sopravvivenza in un futuro a medio termine incerto e oscuro. E spinge Berlusconi a improvvisare controffensive velleitarie che trascuro di citare perché si succedono di continuo. D’altra parte è questa speranza di vittoria che produce nel popolo dell’opposizione una richiesta imperativa di unità che obbliga i gruppi dirigenti a moderare, se non a rimuovere, divisioni non piccole, che pure permangono.
Queste le basi di un ragionevole ottimismo. E non è poco: perché il giorno in cui ci liberassimo di Berlusconi è un’intera coalizione, un blocco sociale, un sistema di potere già in parte costruito, che si sfascerebbero e cambierebbero di riflesso anche i rapporti di forza sociali.
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Le cose si complicano se passiamo invece a ragionare sul secondo interrogativo. È possibile e soprattutto cosa vuol dire un accordo di governo che comprenda tutta l’attuale opposizione, serio quanto basti per strappare non solo un voto o un deputato in più dell’avversario, ma per raccogliere un consenso ampio e solido?
Particolarmente in un sistema maggioritario – come quello in cui ormai siamo e per ora, in una o in un’altra versione, resteremo – se le elezioni vanno bene, devi governare, ti troverai a governare con forze ancora molto diverse tra loro, e misurandoti subito con problemi molto più complicati del passato.
Qui ogni ottimismo, ogni superficialità, ogni generica professione di buone intenzioni, ogni rinvio nel discutere e nell’agire è irresponsabile, può perfino mettere a rischio la stessa vittoria elettorale.
Lo stato attuale delle cose, quanto a un programma possibile, non è buono; d’altra parte il movimento è su questo terreno in difficoltà, non sa bene se, come e su che cosa può inserirsi, per pesare nella definizione della fisionomia politica e dei programmi della coalizione di opposizione.
Sulle grandi scelte (essere alleati che condizionano gli Usa o alternativi alla loro attuale politica; segno politico, identità, e profilo istituzionale della costruzione europea; funzionamento corretto del mercato o critica del neoliberismo e riforma delle istituzioni che lo reggono; Welfare universalistico o solo pari opportunità nel competere oltre un minimo vitale in una società sempre più differenziata) le forze di opposizione sono distanti, soprattutto – ma non solo – a livello di gruppi dirigenti. Un pieno accordo di governo di legislatura, che implica non solo alcune scelte da tutti accettate ed enunciate in un programma di partenza, ma anche una ispirazione che consenta di affrontare insieme e concordemente situazioni nuove che continuamente si presenteranno, non è quindi una possibilità concreta.
Ciò che è ragionevole, ma a sua volta non facile, è però un’intesa seria e vincolante su alcuni punti, circoscritti ma irrinunciabili, in ragione dei quali anche coloro che non vogliono e non possono condividere gli orientamenti prevalenti possano comunque garantire lealmente la durata di un nuovo governo. È possibile, infatti, riconoscere – non solo nella sinistra più radicale, ma anche in larga parte degli elettori di cui complessivamente si ha bisogno per costruire una maggioranza – alcune opzioni, praticabili ma di grande significato, alle quali a tutti è difficile sottrarsi.
Faccio solo alcuni esempi. La nuova coalizione si impegna, in partenza, a smantellare l’eredità pesante che il centro-destra lascia dietro di sé: non solo la sua parte più scandalosa – tipo legge Cirami, lodo Maccanico, legge Bossi-Fini sull’immigrazione –, ma la nuova legislazione sul rapporto di lavoro, l’impianto della riforma sulla scuola, il federalismo concorrenziale, le privatizzazioni a cascata e la legislazione fiscale; oppure, come negli Usa e in Inghilterra dopo Reagan e la Thatcher, accetterà buona parte dei fati compiuti? Di più: ciò che peserà, di questi anni, non è solo ciò che il governo ha fatto, ma altrettanto ciò che non ha impedito ma favorito nei fatti: le mille forme di precarizzazione del lavoro; la compressione del salario; la concentrazione del potere e il degrado della qualità dell’informazione, pubblica e privata; la pratica lottizzatoria dello spoil system nell’amministrazione. Ci si impegna a risalire la china?
Ci sono poi alcune scelte che la realtà recente non consente a una forza progressista di aggirare e anzi la qualificano. Il rifiuto intransigente – ex-ante ed ex-post – della guerra preventiva, e comunque di ogni azione internazionale non decisa e non pienamente gestita dall’Onu. Un’iniziativa pressante in sede europea per rivedere almeno il Trattato di Amsterdam, escludendo dal calcolo dei suoi parametri la voce degli investimenti effettivi, per permettere una politica economica anticiclica. Attivare un nuovo tipo di programmazione pubblica per frenare e rovesciare lo smantellamento della grande industria italiana e collegarvi un massiccio impegno sulla ricerca e nell’istruzione. Dare una priorità effettiva e non puramente retorica alla questione energetica che è al tempo stesso politica ambientale e politica economica. Il sostegno anche legislativo alla ricostruzione di una democrazia sindacale effettiva, che restituisca ai lavoratori la autonomia di decisione nel conflitto sociale. Molteplici iniziative per una redistribuzione del reddito, per il recupero del potere d’acquisto del salario, come problema di giustizia sociale ma anche condizione necessaria di sostegno alla domanda interna. Su questi punti una convergenza, se non facile, è possibile, e il consenso del paese si può trovare. Ma occorre tempo, coraggio, determinazione nel fissare l’irrinunciabile e flessibilità nel compromesso accettabile.
Dove stanno però gli ostacoli che inquietano? Il primo sta nel fatto che i soggetti politici – cui in questo campo è affidata l’ultima parola – sono al tempo stesso ormai sinceramente convinti della necessità di un ‘serio accordo di governo’, ma molto indecisi e riluttanti a compromettervisi anche solo entro i confini qui accennati.
I Ds e la Margherita stanno riproponendo lo schema antico: l’Ulivo faccia il suo programma e scelga la sua leadership di governo, alla stretta finale troverà un qualche accordo con Rifondazione, il più generico e circoscritto possibile. Rifondazione – che, comprensibilmente, non solo e non tanto ha il problema degli orientamenti della propria base, ma soprattutto teme di compromettere un rapporto di fiducia con movimenti e culture, su cui tanto generosamente ha puntato – afferma che vuole impegnarsi «oltre la desistenza» in un «serio accordo di governo» per dare alle lotte risultati significativi che altrimenti non sarebbero ottenibili, e allo stesso tempo che «non esiste nella situazione attuale alcuno spazio per alcun tipo di riformismo».
Il secondo ostacolo sta nel fatto che, anziché crescere e prender forma, si è sgonfiata la volontà e la forza di quella ‘sinistra intermedia’, per un momento simboleggiata da Cofferati, che poteva imporre una mediazione avanzata perché, pur con tutte le sue ambiguità e i suoi limiti, rappresentava gran parte del popolo che chiedeva una svolta effettiva.
Lungo un simile itinerario resta comunque quasi certo che a una larga coalizione si arriverà, forse anche che si possa vincere le elezioni, ma è altrettanto possibile che l’Ulivo, ritrovandosi con una maggioranza parlamentare autosufficiente faccia poi come gli pare o, in caso contrario, al primo inceppo, scopra che con Casini è più facile intendersi che con Bertinotti o con la attuale Cgil. E che nel frattempo, il movimento di opposizione di massa possa perdere incisività e accentui il suo distacco dalla politica.
Per superare questi ostacoli occorrono in primo luogo due cose. Un mutamento rapido e radicale nell’agenda della discussione politica a sinistra: nei tempi, nei contenuti, nelle modalità. Se si vuole veramente un accordo di governo, serio per quanto circoscritto, non si può rimandarlo all’ultimo istante, quando ciascuno avrà già definito le proprie posizioni e già disputerà sulla assegnazione dei collegi: occorre che ciascuno chiarisca ora ciò che intende, ciò che vuole, e si apra a un franco confronto. Altrettanto è indispensabile che sia precisato ciò che ciascuno ritiene irrinunciabile e ottenibile, e a quali impegni è disponibile.
Infine, la definizione di una nuova coalizione deve coinvolgere contemporaneamente tutti, non procedere per scatole cinesi: se Ds e Margherita vogliono parteciparvi come partito unico in formazione, e nel frattempo presentare liste uniche alle europee, è loro diritto (anche se idea balzana). Non possono però giocare sul termine ‘Ulivo’, che era una coalizione elettorale e come tale una nuova la deve superare o coalizione non è. Senza tutto questo finiremo col rimpiangere la vecchia e onesta desistenza.
In secondo luogo, ma non meno importante, è che a questa faticosa costruzione politica e programmatica partecipino realmente tutti i movimenti e le organizzazioni sociali che hanno rianimato dal basso l’opposizione italiana: tutti coloro che sono stati in piazza o hanno scioperato o alzato bandiere, o scritto articoli per dire ‘no alla guerra preventiva senza se e senza ma’, per difendere i diritti materiali e di libertà dei lavoratori, per salvare il rispetto della legalità, della Costituzione, del pluralismo dell’informazione, hanno, se lo vogliono, diritto a portare le loro convinzioni nella coalizione elettorale che poi dovranno comunque votare. Rifondazione comunista, il convitato d’obbligo della trattativa per un accordo elettorale, anche se chiarisse meglio le sue posizioni, da sola non basterebbe a portarla in porto: il suo potere contrattuale in questa fase è remodesto, per i risultati elettorali ottenuti ancora di recente, e soprattutto perché i dirigenti dell’Ulivo si coltivano l’illusione, in caso di rottura, di ottenere ugualmente i voti della sua base elettorale.
Niente di tutto ciò è impossibile: la caduta del centro-destra non è per domani, e si avvicinano prove politiche, scelte economiche, nuove strette internazionali, scadenze elettorali, sulle quali le varie posizioni e i rapporti di forza sociali e politici evolveranno. Prime delle liste, occorrerà affrontare la situazione mediorientale, la questione delle pensioni, le riforme costituzionali.
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Come si vede, anche assunta l’ipotesi di una sconfitta di Berlusconi, restano in campo – non in astratto ma concretamente – due prospettive di evoluzione della situazione italiana, nettamente diverse e in competizione tra loro. La prima è quella di un governo progressista, in grado di durare seppure con molte tensioni, di restaurare la legalità costituzionale e maggiori spazi democratici, di dialogare con reciproca utilità con insorgenti movimenti di massa, di tentare una politica economica di sostegno allo sviluppo produttivo e di realizzare una distribuzione del reddito un po’ più equa, di difendere almeno i diritti acquisiti ma in un contesto sociale che di per sé tende a ridurli, di contrastare la politica americana almeno nella versione di Bush, e anche di usare le proprie effettive divisioni interne per favorire un confronto più serio e alzare il livello delle forze e delle culture che vi partecipano.
La seconda prospettiva è quella di una riedizione aggiornata della vicenda del precedente centro-sinistra, quindi una maggioranza precaria e tacitamente alla ricerca di soluzioni di ricambio, rispettosa delle compatibilità di sistema, ansiosa di ulteriore legittimazione da parte dei poteri forti, con un approdo mediocre o disastroso a seconda che, contemporaneamente, i democratici americani vincano le prossime presidenziali, la crisi economica per conto suo si allenti, in Europa abbia successo quella convergenza che Schröder e Blair stanno tentando per superare i guai in cui oggi si trovano.
Non è una differenza da poco, Né in sé, né nelle conseguenze di più lungo periodo.
Ho usato però intenzionalmente il termine, desueto e modesto, di ‘governo progressista’ per chiarire subito che non suoneranno squilli di tromba. Nell’un caso e nell’altro, non ci si può né deve attendere a breve l’avvio di una svolta radicale. Cioè di quella grande operazione trasformatrice – non il superamento del capitalismo come tale, ma della sua forma storicamente determinata, neoliberista e neo-imperiale – che fin dalla sua nascita questa «rivista» ha considerato necessaria e possibile e gli eventi degli ultimi anni hanno reso più evidente. Qui il pessimismo dell’intelligenza deve fare la sua parte.
Non si tratta di discutere se c’è o non c’è spazio ormai per il riformismo. Tale discussione si è ripetuta molte volte, nel corso di più di un secolo. Con un grande spessore teorico e utilmente nella Bernsteindebatte, con l’accetta e gravi conseguenze all’inizio e alla fine degli anni ’20, con reciproco fairplay ma molte reticenze di fronte al neocapitalismo del secondo dopoguerra. Per quello che ho letto e per le esperienze cui ho avuto modo di partecipare, e potendo ora ripensarci alla luce di ciò che poi è avvenuto, sono arrivato alla convinzione che essa era teoricamente mal posta e politicamente infeconda. Anche di fronte ad un capitalismo senile (‘putrescente’, come erroneamente già si cominciò a definirlo quasi cento anni fa) a un tale interrogativo non c’è risposta né rigorosa né utile. La meno sbagliata che mi verrebbe da dare è: dipende.
Dipende anzitutto dal condensarsi, spesso in gran parte imprevedibile e improvviso, di condizioni storiche oggettive. Le vere rivoluzioni, come Lenin ben sapeva, non nascono da una volontà, sia pure organizzata e sviluppata, ma dal suo incontro con situazioni eccezionali, una crisi traumatica che rende impotente la stessa classe dominante (non ci sarebbe stata la rivoluzione russa senza la prima guerra mondiale, né quella cinese senza la seconda). A volte tali rivoluzioni riescono contro ogni ragionevolezza, altre, come quella tedesca, contro ogni attesa, non cominciano nemmeno.
Altrettanto vale per le grandi operazioni riformatrici, che impongono al capitalismo radicali e positive trasformazioni (senza l’imprevista crisi del ’29 il New Deal non era affatto iscritto nella storia americana). Anzi, nel caso del riformismo, le condizioni sono ancora più indeterminate: esso può essere imposto da una crisi, come negli Stati Uniti o in Svezia negli anni ’30, o innescarsi su una fase di forte sviluppo come nell’Europa del dopoguerra. E, in entrambi i casi, è uno tra diversi sbocchi possibili. La tesi, oggi corrente, che Stato sociale e democrazia partecipata fossero figli naturali, o frutti avvelenati, del taylorismo, del fordismo e di Keynes, può soddisfare apologeti ignoranti o professori troppo sottili. E infatti nel primo caso produssero egualmente Roosevelt, Hitler o l’ottusità conservatrice e capitolarda dei Chamberlain e dei Daladier; nel secondo portarono al compromesso socialdemocratico in Europa, o inversamente alla società piramidale in Giappone.
Le grandi operazioni riformatrici, come le rivoluzioni di successo, non sono insomma solo occasioni che si offrono, ma uno spazio che si conquista e che una soggettività matura e adeguata – Gramsci diceva «consenso corazzato di forza» – è attrezzata a occupare. Se andiamo a rivedere le proposte programmatiche immediate e concrete che Marx stesso metteva a postilla della sua pur radicalissima Critica del programma di Gotha (suffragio universale, istruzione obbligatoria, tassazione progressiva, ecc), che poi furono estese nella battaglia antifascista a nuovi temi (l’indipendenza dei popoli oppressi, il Welfare universalistico, i diritti del lavoro, la piena occupazione, l’economia a due settori), constatiamo che, in un certo momento, sostenitori e critici del riformismo quegli obiettivi li avevano insieme e comunque in gran parte raggiunti, anche fuori del ‘campo socialista’ (sia pure facendo leva anche sulla sua sfida). Il grande riformismo è stato non il prodotto di un governo, ma di un lungo e tormentato processo storico, fatto di lotte, di capacità di orientare l’azione di governo, di egemonia molecolare, collegati in un progetto. Se guardiamo alla storia reale, la riduzione delle riforme a governo è il puro e perdente corrispettivo della riduzione della rivoluzione alla conquista di un Palazzo d’Inverno.
Ora siamo ancora lontani da una condizione e dall’altra. La crisi capitalistica è profonda, tale comunque da suscitare un contrasto rinnovato e radicale. Ma nel quadro mondiale e nei paesi determinanti, Italia compresa, oggi a un’impossibilità delle classi dominanti a reggere le leve del potere secondo gli attuali indirizzi non siamo arrivati. Ancor di più, la sinistra ‘alternativa’ è ai primi passi, e quella ‘riformista’ è tale quasi solo a parole, spesso esse stesse insignificanti. La prima è un movimento forte ma abbastanza sparso e intermittente; la seconda è soprattutto ceto politico occupato a riprodursi. Niente da stupirsi quindi. Ma poiché, come abbiamo visto, le cose stringono, il più limitato ma bruciante interrogativo finalmente da proporsi diventa: perché questi ultimi anni tumultuosi non sono bastati almeno ad avviare sul serio la formazione di una sinistra politica alternativa più forte, matura e di qualità; tanto meno a scuotere quella ‘riformista’, lasciandovi un sedimento significativo? Il risultato principale che ‘i movimenti’ pur straordinari di questi anni hanno mancato sta proprio in questo: nella scarsa incidenza sulla rappresentanza politica. Il rifiuto sacrosanto di ‘questa politica’ ha permesso, infatti, proprio a questa politica di ricostituirsi com’era. In apparenza è un interrogativo che investe direttamente le forze organizzate e comunque attive. Ormai non hanno più immediatamente alle spalle l’89, ma una grande spinta contestatrice, in un paese che, malgrado la dissipazione di un decennio, ha mostrato di portare in sé i genomi non solo della destra peggiore ma di una tradizione di sinistra grande. È arrivato dunque anche per loro il momento di un bilancio di verità.
Ma in realtà l’interrogativo investe e brucia anche noi, come «rivista», sede anzitutto di analisi e riflessione. Molte analisi e previsioni le abbiamo azzeccate, molti granchi li abbiamo evitati, dunque tanto più siamo costretti a chiederci le ragioni di una tuttora così limitata influenza (nonostante la diffusione del tutto eccezionale per un mensile politico), a cercarle nei nostri limiti ma anche a indagare su elementi ben più importanti: la composizione sociale, la formazione culturale, il residuo della storia passata e la natura dei nuovi soggetti. Insomma ad andare più a fondo. D’altro lato, e soprattutto, perché proprio noi che pure avevamo messo a tema un riformismo forte, su di esso siamo stati gracili e prudenti? Non ne abbiamo esplicitato le motivazioni e la portata strategica, come tappa di un processo storico lungo ma governato da una finalità radicale e chiara e perciò elemento costitutivo di una moderna identità comunista non liquidata. Ma soprattutto non gli abbiamo dato concretezza e coerenza.
Quali sono le idee forza che oggi dovrebbero comporsi nel definirlo, questo riformismo forte, e animarlo? Qualche tentativo in questa direzione l’abbiamo fatto, non spregevole, a dimostrazione che non è impossibile. In questo stesso numero, il dossier sull’energia è un piccolo esempio, sul tema dei conflitti del lavoro abbiamo prodotto un impegno sistematico con l’apporto di validi collaboratori; anche nella lettura della crisi economica e su alcune proposte per affrontarla abbiamo anticipato i tempi; infine, tempo fa – mi sia perdonata l’autocitazione –, abbiamo richiamato l’attenzione sulla questione cruciale quanto trascurata della scuola. Risultati: scarsi, anche solo nel suscitare un confronto.
Evidentemente siamo sotto il livello e la massa d’urto necessari per scuotere qualcosa anche solo su terreno delle idee. Restiamo bene in vita, siamo apprezzati, ma soprattutto come intelligenti, coraggiosi, e insieme equilibrati, commentatori critici di ciò che avviene, non come autori di una provocazione politico-culturale cui reagire. Ebbene, abbiamo – per superare questa soglia che le cose impongono di superare, pena l’insignificanza – l’energia, le intelligenze, la convinzione? Ce lo domandiamo, ce lo domanderemo, e lo domanderemo ai collaboratori e ai lettori. Anche per questa «rivista» il tempo del continuismo, del sopravvivere più che vivere, è finito.