L’accordo separato è arrivato alle otto e dieci di ieri sera, con una velocità impressionante: dopo un incontro durato poco più di un’ora, con una pausa di trenta minuti in mezzo. In un primo momento sembrava che governo, imprese e sindacati dovessero fare la nottata, perché l’intenzione dell’esecutivo, come delle imprese, Cisl, Uil e Ugl era di firmare appena possibile: invece tutto si è concluso entro l’ora di cena, e addio al Patto del luglio ’93, sembra aprirsi davvero una nuova epoca. Senza la Cgil, il sindacato più rappresentativo, che ha deciso di non siglare il documento.
Il governo nel primo pomeriggio aveva incontrato imprese, sindacati e Regioni per esporre la sua proposta anti-crisi, un testo di tre pagine intitolato «Linee guida per la tutela attiva della disoccupazione». Poi, alle 18,30, l’incontro con le associazioni di impresa e i sindacati per discutere del modello contrattuale. Il governo si è dimostrato subito intenzionato a chiudere, se possibile entro la nottata: la proposta è arrivata dal sottosegretario Gianni Letta («se volete facciamo notte…»). Sia il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi che il segretario Cisl Raffaele Bonanni, subito dopo, hanno dichiarato in sincrono che «la crisi è un motivo in più per accelerare l’accordo». Insomma, il pressing è apparso fortissimo sin dall’inizio.
Il negoziato si è fermato una prima mezz’ora per trovare la quadra tra un nuovo documento presentato da Confindustria, e un testo proposto dal ministro Renato Brunetta: sono stati integrati per arrivare a un modello unico pubblico/privato. E’ a questo punto che il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, ha dichiarato che «se il documento non è modificabile, non c’è l’accordo della Cgil». Ma la modifica auspicata non è mai arrivata, e tutti gli altri protagonisti al tavolo hanno detto sì. Da parte datoriale, c’è da segnalare la scelta manifestata da Abi, Ania, Lega cooperative, Cida e Confedir: hanno condiviso il testo con riserva, rinviando la propria firma ai prossimi giorni.
Per il ministro Sacconi «l’accordo sostituisce quello del 1993»: «Avremmo preferito l’adesione della Cgil ma era necessario, come hanno ritenuto tutti gli altri attori sociali, mettere un punto fermo nella lunghissima vicenda: era prevalente rispetto all’idea di soggiacere a una sorta di veto». Acido il ministro Brunetta: «Nessuno ha il diritto di veto. Anche i contratti del pubblico impiego li abbiamo fatti senza Cgil». Sull’altro fronte, Epifani spiega che «il governo ha firmato in direzione di un’intesa che sapeva non avrebbe trovato l’accordo della Cgil. Ci è stato presentato stasera, integrato con la parte relativa al pubblico impiego che non si conosceva. Era un prendere o lasciare e la Cgil non era d’accordo». «Non sono contento, il Paese ha bisogno di unità ma non si può chiedere coraggio a quelli che lo hanno avuto e hanno pagato i prezzi più grandi. Noi preferiamo mantenere una linea di rigore e serietà».
Adesso bisognerà capire le prossime mosse della Cgil. Intanto, il 13 febbraio c’è lo sciopero dei metalmeccanici e del pubblico impiego, poi c’è la manifestazione, annunciata l’altroieri, prevista da tutta la Cgil per il 4 aprile. Ma di fronte al fatto «storico» di ieri (tanti protagonisti, da una parte della barricata e dall’altra l’hanno definito in questo modo), il 4 aprile sembra lontano e sembra troppo poco.
Dal fronte della Fiom dichiara subito il segretario nazionale Giorgio Cremaschi, che è anche coordinatore della Rete 28 aprile: «È l’accordo della complicità per distruggere il contratto nazionale. A partire dal 13 febbraio con lo sciopero dei metalmeccanici a Roma lavoreremo per ribaltarlo in tutti i contratti, nei luoghi di lavoro».
Il testo prevede una sperimentazione per 4 anni, e prevede contratti di durata triennale (economica e normativa) sia per il pubblico che per il privato. Il contratto nazionale ne esce trasformato in versione «light»: avrà la sola funzione di «garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi», ma non si fa alcun riferimento nè alla tenuta nè tantomeno al recupero del potere di acquisto dei salari. Punto a cui la Cgil teneva. Ci sarà un nuovo indice europeo per la misura dell’inflazione (l’Ipca), depurato però dei beni energetici (anche su questo la Cgil è sempre stata contraria). Il secondo livello, seppure citato, non è garantito, ripetendo di fatto su questo punto l’inefficacia del patto del ’93. Viene poi imbrigliato il ruolo delle categorie nella negoziazione, e guadagna peso il livello interconfederale.
La frase finale dell’accordo parla da sola: «Le parti confermano che obiettivo dell’intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l’aumento della produttività»: manca qualsiasi riferimento ai salari, alla loro tenuta e al loro aumento.
Quanto invece al testo approntato per far fronte alla crisi, le «linee guida» presentate dal governo a regioni e parti sociali contengono solo intenti: è vero che si prende atto dell’urgenza della situazione e del fatto che le azioni devono essere «tempestive e mirate», ma per ora non si quantifica nulla, nè si stanziano risorse definite. D’altra parte non si è ancora raggiunta un’intesa, soprattutto con le Regioni, che dovrebbero sborsare, nell’intenzione del governo, buona parte delle risorse destinate agli ammortizzatori sociali. La Cgil boccia il testo: «C’è delusione – commenta Epifani – Più il tempo passa, più i precari sono senza tutele. Se il governo non mette risorse aggiuntive, non si esce da questo problema». Inoltre, conclde il segretario della Cgil, «la social card si poteva fare in maniera meno umiliante».