Conclave al bivio, tra continuità e ritorno al Concilio

Dopo un pontefice di «grande formato» quale certamente è stato Karol Wojtyla, è indubbio che non sarà davvero facile, per i cardinali che si chiuderanno domani in Conclave, scegliere un successore che si collochi a un livello almeno vicino a quello del papa appena defunto. Giovanni Paolo II ha infatti indubbiamente avuto una straordinaria capacità di riempire il vuoto aperto dalla crisi delle grandi ideologie che erano state protagoniste del ‘900 per affermare un ruolo politico e di presenza internazionale quale la Chiesa cattolica non conosceva da moltissimo tempo. Sarà perciò forte la tentazione, per il partito conservatore dei porporati che circondavano il pontefice defunto e che attualmente controllano la curia romana, cercare di imporre l’elezione di un papa che dia garanzia di continuità, nella speranza (o nell’illusione) che ciò assicuri anche il prolungarsi del successo e dei consensi raccolti in questi anni. Ma la vera questione è proprio questa: si tratta di trovare un papa che sia il più possibile simile a Giovanni Paolo II, e quindi abbia le doti di iniziativa e di immagine che possano far passare in seconda linea gli interrogativi senza risposta che il mondo di oggi propone alla chiesa, o piuttosto di riprendere il difficile cammino di rinnovamento culturale e istituzionale appena intrapreso da Concilio vaticano secondo? Se infatti si guarda ai problemi più sostanziali che la chiesa aveva di fronte 26 anni fa, quando verso la fine del `78 Wojtyla fu chiamato da Cracovia al Vaticano, il discorso diventa assai più problematico. Non solo gran parte di questi problemi (in sostanza tutta la tematica dei rapporti col mondo moderno) si ripresentano oggi ancora aperti; ma per molti aspetti essi sono stati aggravati dal riflusso delle speranza e delle iniziative di confronto e di dialogo che il movimento conciliare aveva stimolato.

Tutto ciò si ripropone con particolare acutezza – come è evidente – per quel che riguarda le condizioni del cattolicesimo nei paesi più avanzati dell’Europa e del Nord America. Non si tratta solo del contrasto, da molti rilevato, fra il trionfo mediatico per lo straordinario afflusso di massa attorno alla salma del papa e il vuoto quotidiano delle chiese, che è il segno di una crisi di religiosità che non si è certo arrestata. Si tratta di questioni ben reali che non da oggi tormentano il mondo cattolico e che il successo mondano del pontificato di Giovanni Paolo II ha soltanto velato. Basta pensare – faccio solo qualche accenno – al regresso delle esperienze di collegialità, che rappresentavano un tentativo di far avanzare un dialogo non esteriore con le chiese cristiane, non soltanto quelle ortodosse ma soprattutto quelle protestanti; oppure al prevalere in campo dottrinale del culto mariano, all’ossessiva insistenza sui peccati del sesso come tema centrale della morale cattolica, all’impostazione regressiva del problema della difesa della vita umana sin dall’istante del concepimento; o, ancora, alle mancate risposte, anche solo in termini iniziali o sperimentali, a problemi di grande rilievo, come quelli del ruolo della donna nella chiesa o di una normativa meno rigida in materia di celibato ecclesiastico (salvo poi calare il silenzio sugli scandali di pedofilia, come si è cercato di fare negli Stati Uniti).

Ma dove – forse – più pesanti appaiono le responsabilità che possono essere direttamente attribuite al pontefice defunto (e più acuta, dunque, è l’esigenza di un mutamento di rotta) è proprio nei continenti in cui il cattolicesimo, anche a causa dell’incremento demografico, è tuttora in espansione, cioè in America Latina e in Africa. Non ritorno su ciò che molti commentatori hanno rilevato a proposito del Centro e del Sud America: ossia sul contrasto tra la durezza di cui Giovanni Paolo II ha dato prova nel condannare i seguaci della «teologia della liberazione», colpevoli di concedere troppo all’analisi marxista nell’insegnamento e nell’azione pratica a favore dei «dannati della terra»; e l’atteggiamento a dir poco tollerante dimostrato invece nei confronti di quelle autorità ecclesiastiche che, come è accaduto in Argentina, in Cile e anche altrove, sono state benevole (a dir poco) verso regimi che si sono macchiati di orrendi delitti.

Per certi aspetti ancor più grave è stato l’atteggiamento di fronte ai problemi dell’Africa subsahariana. Non si può non concordare con la predicazione a favore dei più poveri, o contro le carestie e la guerra. Ma pare a me che sia mancata anche in questi casi quella «pietà umana» che dovrebbe innervare ogni predicazione religiosa: una pietà che non c’è stata quando su ogni altra considerazione si è fatto prevalere la condanna di qualsiasi metodo contraccettivo, anche in paesi in cui milioni di uomini (e bambini) muoiono per la fame e la denutrizione e, ormai da anni, per il flagello dell’Aids.

Rimane, senza dubbio, l’impegno che Karol Wojtyla ha dimostrato – sia pure rassegnandosi, alla fine, al prevalere della politica del più forte – di fronte alla guerra in Iraq: un impegno accompagnato dalla preoccupazione di evitare uno scontro di culture e religioni. Al pari del dialogo con l’ebraismo, certamente questo deve restare come un insegnamento da non perdere. Ma si può immaginare che sui temi prima indicati non si presenti al nuovo pontefice il problema di una svolta, che riprenda il cammino rimasto interrotto con la fine del Concilio? Certo, è comprensibile che su questioni di tanta portata non sia facile per la chiesa rivedere in radice una linea che ha avuto in questi anni un apparente e così largo successo: tanto più in un Conclave formato da cardinali quasi tutti di nomina wojtyliana. Resta tuttavia la speranza che possa avvenire qualcosa di simile a quel che si verificò alla morte di Pio XII: quando emerse un nome, Roncalli, che non si era particolarmente caratterizzato come un innovatore, ma che – «umile fra gli umili», come fu detto, e lontano dall’orgoglio di potenza che è sempre un cattivo suggeritore – seppe comprendere i «segni dei tempi» e aprire la chiesa, con la Pacem in terris e con la convocazione del Concilio, all’urgenza di misurarsi realmente con i problemi di una nuova epoca. Ci sembra giusto sperare, anche da parte di chi non è credente ma avverte l’importanza del ruolo della chiesa cattolica, che questo possa ripetersi.