Con le primarie non si rivitalizza la partecipazione e la democrazia

Dopo il grande successo della consultazione del 16 ottobre, non si può certo dire che il discorso sulle primarie sia archiviato. Romano Prodi ha ottenuto non solo la legittimazione popolare diretta che tanto desiderava ma anche il clamoroso rilancio del progetto della lista unica dell’Ulivo, che sembrava definitivamente accantonato dopo lo strappo della Margherita mentre ora è stato digerito perfino dalla sinistra dei Ds.
Anzi, a partire dal cosiddetto popolo delle primarie, pare decollare a questo punto la stessa ipotesi ambiziosa di procedere alla formazione di un partito democratico (o “partito delle primarie”), così come è stato sistematizzato, senza incontrare obiezioni di rilievo, dal documento di Amato e Parisi del 25 ottobre e dal convegno dell’associazione “Governare per” del 3-4 novembre. Dunque, quello che emerge dalle primarie si profila chiaramente come un progetto moderato, che infatti viene presentato come una “normalizzazione” della politica italiana, nel senso di un superamento definitivo delle tradizionali identità politiche e di un consolidamento dell’assetto maggioritario e bipolare del nostro sistema democratico (ritenuto tanto più necessario a fronte della “regressione proporzionalista” contestata al centro destra).
In particolare, l’abbandono del riferimento socialdemocratico in favore del modello americano si profila tutt’altro che come un ennesimo escamotage nominalistico, ma piuttosto come una modalità per posizionarsi in una collocazione politica più pragmatica, la cui piattaforma sarebbe caratterizzata dall’accettazione piena (e senza più alcuna riserva) del mercato, della globalizzazione, della necessità di smantellare il welfare e della disponibilità all’uso della forza in politica internazionale. Che siano questi i contenuti obbligati di un eventuale partito democratico si evince non solo dalle opinioni di osservatori simpatetici come il politologo Kupchan o il direttore dell'”Economist” Emmott, ma anche dalle posizioni programmatiche espresse in questi ultimi tempi dai leader del centro sinistra, nonché dagli atteggiamenti tenuti in vicende come quella di Bologna o dell’Iran. E’ questo il significato che sta assumendo oggettivamente il progetto del partito delle primarie. Non c’è che dire: è proprio un bel risultato per chi confidava nelle primarie per uno spostamento a sinistra dell’asse dell’Unione!
Ma, a parte questi pesanti effetti politici sull’area moderata del centro sinistra, le primarie fanno temere implicazioni culturali e sociali ancora più ampie all’interno dello schieramento, senza risparmiare neppure l’area alternativa.
Del resto, per quanto deludente sia stato il risultato ottenuto da Bertinotti, l’investimento che il leader di Rifondazione ha fatto sulle primarie è stato così carico da farlo rimanere ostaggio non solo della leadership che ha contribuito a rafforzare ma anche della logica plebiscitaria che allo strumento è connaturata. Infatti, la valorizzazione della partecipazione (quale bene in sé) non può ignorare il senso in cui essa è stata sollecitata e in cui è stata incanalata effettivamente. Ora, non ci sono dubbi (nessuno lo nega) che essa è stata sollecitata in funzione anti-berlusconiana e incanalata in direzione maggioritaristica. Una mobilitazione certamente importante, quindi, nella misura in cui è stata diretta contro un governo e un premier così indecenti e contro eventuali tentativi, sempre temibili, di congegnare le regole per manipolare i risultati elettorali. Una mobilitazione importante, ripeto, ma non più di questo. Perché in questo modo la mobilitazione è servita di fatto ad accantonare le questioni programmatiche, in particolare ad evitare ogni vero coinvolgimento popolare nella sua definizione, e ad affermare una certa concezione della democrazia che, nel mentre si proclama partecipativa, in realtà alla partecipazione riserva una funzione delimitata e deviante.
Quel che è riemerso il 16 ottobre, infatti, è piuttosto lo “spirito degli anni novanta”, cioè quell’orientamento populista e anti-partitocratico che è già servito ad affossare la prima repubblica e che ci aveva promesso la moralizzazione della politica e il bipartitismo anglosassone ma invece ci ha regalato il berlusconismo e altre belle cose. Il 16 ottobre è stato l’apoteosi del girotondismo, attizzato e rafforzato questa volta dal leader “senza partito” (cioè a-partitico) Prodi. Non è un caso che la composizione della cittadinanza che si è mobilitata, il già mitizzato “popolo delle primarie”, a ben vedere sia stata contrassegnata da quegli stessi ceti medi radicalizzati (“riflessivi”?) che si erano visti in azione nelle precedenti occasioni.
Ora, se è questo il segno culturale e sociale della mobilitazione avvenuta in queste primarie, il rischio è che una coalizione da essa cementata finisca per assumerne come perno e riferimento determinante la cultura e la base sociale. Il che vorrebbe dire abbandonare definitivamente ai margini quei ceti popolari e quegli interessi del lavoro subalterno che sono stati la base tradizionale della sinistra e ora si trovano costretti in maniera sempre più pressante alla scelta tra alienazione politica e fiammate populiste (di destra). E vorrebbe dire quindi smantellare del tutto le strutture di rappresentanza organizzata e di massa che hanno costituito la modalità propria del movimento operaio per bilanciare almeno in parte gli squilibri sociali.
Di qui la tendenza verso una democrazia plebiscitaria, dove la partecipazione si riduce alla pura investitura dei leader e non serve più a strutturare un processo collettivo di formazione di gruppi dirigenti responsabili e legati a un progetto comune. Certo, una tale tendenza è già in atto da tempo, ormai introiettata da tutti i partiti, compresi quelli di sinistra. Solo così si spiegano, del resto, le illusioni che lo strumento delle primarie ha creato nella base di partiti come i Ds e Rifondazione, già intaccati dall’indebolimento del processo democratico collettivo e dalla penetrazione di logiche personalistiche. Ma qui si tratterebbe di un passo ulteriore, da cui la funzione dei partiti verrebbe ad essere davvero svuotata, lasciando campo libero a ogni tipo di imprenditore politico in grado di mettere a frutto risorse sostanziose. Come nel caso americano, appunto.
Si sbaglia di grosso chi pensa che attraverso strumenti come le primarie si possano rivitalizzare l’impulso partecipativo e la democrazia partitica, contrastando i fenomeni oligarchici che interessano i vari ceti politici. Come si fa a non vedere che, al contrario, strumenti del genere rendono i ceti politici ancora più autoreferenziali? Dobbiamo aspettare che comincino ad emergere i Berlusconi di sinistra, dotati delle risorse per imporsi nelle nomination affidate alle elezioni primarie, per mettere mano (quando ormai sarà troppo tardi) alla ricostruzione di organizzazioni collettive genuinamente democratiche e partecipative?