«Con le critiche un voto più vero»

Non faccio sondaggi e tanto meno previsioni. Ma il dato che emerge dalla consultazione è che con il voto la partita per il sindacato non si è chiusa, chi la vivesse così farebbe un grave errore. Dobbiamo cogliere che il segnale uscito dalle assemblee è rivolto tanto alla politica quanto alle confederazioni sindacali: si è superato il livello di guardia». Un segnale netto – dice Gianni Rinaldini – di crisi della rappresentanza, di distacco crescente dei lavoratori dipendenti dalla politica e anche il sindacato rischia di essere identificato con un ceto ormai incapace di vedere i problemi concreti legati alla materialità del lavoro, alla sua svalorizzazione.

Da ieri, chiusa la fase delle assemblee, più di 50 mila, si è passati al voto. I segnali di difficoltà potranno essere letti, prima ancora che nei no al protocollo del 23 luglio, dall’eventuale bassa partecipazione. Ne parliamo con il segretario generale della Fiom, l’unica categoria della Cgil che a larga maggioranza ha bocciato l’accordo.

Che giudìzio dai sulla consultazione?
Innanzitutto, dico che l’Italia è l’unico paese in cui si svolgono referendum di questa natura e di questa dimensione, capaci di coinvolgere milioni di lavoratori dipendenti, pensionati e precari. Le assemblee a cui sono stato erano molto partecipate, sia come presenza che per la capacità di ascolto e di intervento. Ogni intervento era accompagnato da applausi o fischi, a testimonianza che si è trattato di assemblee vere. Non era scontato, ma la verifica l’avremo dalla partecipazione e dal risultato del voto. Credo che la posizione critica assunta dalla Fiom abbia reso più vera la consultazione.

Vuoi dire meno bulgara?
Mettila così, se preferisci. Aggiungo che chi ha partecipato alle assemblee ha potuto toccare con mano una situazione di profondo disagio tra i lavoratori, che non trova espressioni e riferimenti sindacali, il che alimenta un inevitabile processo già assai avanzato di frattura tra la condizione concreta di vita della gente e il mondo politico. Lo stesso sindacato è a forte rischio: rischia di essere identificato come parte di questo mondo così distante dai lavoratori. C’è chi dice che tutto questo distacco riguarderebbe solo alcune realtà, insomma sarebbe un problema dei metalmeccanici.
Non ho sufficienti elementi per esprimermi sul clima percepito nelle assemblee delle altre categorie. Mi dicono che in alcuni settori l’elemento più preoccupante è la bassa partecipazione. Nelle grandi assemblee a cui ho partecipato il distacco viene fuori con grande forza.

I fischi di Mirafiorì sono stati commentati da alcuni in modo liquidatorio: quella fabbrica è finita, i suoi operai sono decotti, non sono rappresentativi. Miraflori è il passato che stenta a morire. Cosa rispondi?
Se a Mirafiori avessero applaudito i dirigenti sindacali, gli stessi soloni avrebbero fatto considerazioni opposte. Ci vuole il necessario rispetto nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici. È altamente positivo che questi lavoratori abbiano partecipato alle assemblee in modo attivo, invece di disertare.

L’ultima consultazione di questa entità rìsale al ’95, al tempo della riforma Dini sulle pensioni. Quali le differenze e le affinità?
Nel ’95 le assemblee erano altrettanto vivaci, ma i lavoratori erano stati parte attiva nella vertenza, con scioperi e manifestazioni, dunque la conoscenza dei termini dell’accordo era molto diffusa. E anche nelle situazioni più accese non percepivi il distacco di oggi. Ricordo che il 43% dei lavoratori attivi votò contro. Oggi invece si è arrivati al voto senza un analogo coinvolgimento, e i contenuti non sempre sono conosciuti. In alcuni casi si è percepita la consultazione come un’operazione puramente formale, ed “il sindacato si è presentato con il pacco pronto”, ho sentito dire nelle assemblee. Anche la scelta di presentare un pacchetto così ampio, un accordo che in realtà è una sommatoria di capitoli diversi, crea disagio. Alla Sevel, in Abruzzo, un operaio mi ha chiesto: «Capisco sulle pensioni, ma sul mercato del lavoro e il precariato perché devono votare anche i pensionati?». Bisogna ribaltare l’argomento che chiama in causa il qualunquismo, che stimola false contrapposizioni tra precari e regolari, tra attivi e pensionati. Questo meccanismo di voto invece porta con sé il germe della contrapposizione.

Cosa ti aspetti dal risultato che uscirà dalle urne?
La mia contrarietà al protocollo l’ho già espressa nelle sedi e nei modi opportuni. Mi aspetto che, sicuramente tra i meccanici, emerga il disagio di cui ho parlato, persino al di là del voto. Alla Om un operaio ha mostrato la sua busta paga, mille e 90 euro, dopo trent’anni di lavoro. Come non cogliere la sua distanza da chi sceglie di togliere la sovrattassa sul lavoro straordinario, o di regalare altri sgravi fiscali alle imprese, dopo il regalo del cuneo fiscale? I padroni, dicono in assemblea, non hanno mai preso tanto come questa volta.

La tentazione emersa da qualche parte di chiedere un voto, più che sui contenuti del protocollo, per salvare il governo Prodi non deve aver sortito gli effetti sperati…
Pensare che le nostre difficoltà con chi rappresentiamo si possano risolvere con la difesa del quadro politico vuol dire non capire nulla di quel che succede. Così come dire che se non passa il sì resta lo scalone di Maroni è un messaggio irricevibile, i lavoratori si incazzano e in assemblea rispondono: «Allora perché ci fate votare?».

Vuoi dire che il sindacato avrebbe bisogno, ora, di più autonomia dai partiti e dal governo?
Esattamente. A molti è sfuggito che nel comitato centrale della Fiom, oltre a votare negativamente sul protocollo all’80%, quasi all’unanimità abbiamo approvato un documento sul fisco che rispetto alla finanziaria dice due cose precise: devono essere tassate le rendite finanziarie; si deve ridurre la pressione fiscale sul lavoro dipendente agendo non sulle aliquote – misura che sarebbe spalmata su tutti – ma sulle detrazioni. Invece, la finanziaria riduce di 5 punti la pressione fiscale sulle imprese e lascia immutato il prelievo sulle buste paga dei lavoratori dipendenti.

Quando la consultazione sarà terminata e saranno resi noti i numeri usciti dalle urne, c’è il rìschio che in Cgil si apra il processo ai reprobi della Fiom?
Non credo, sarebbe il modo peggiore per non discutere i problemi e le prospettive del sindacato favorendo un reazione burocratica, contro quel pluralismo che la Cgil ha scelto statuariamente. Dunque non lo credo, ma è innegabile che purtroppo fa parte della storia del movimento operaio la negazione della realtà, con la conseguente riduzione dei problemi alla resa dei conti negli apparati burocratici.