Comunismo nella rete (polemica)

Nella sua “provocazione al popolo di Seattle”, Luigi Cavallaro solleva due questioni. La prima, di ordine dottrinale, ci ricorda la posizione sostenuta da Marx nel 1848 a favore del libero commercio, quando egli intervenne nella polemica sull’abolizione delle tariffe doganali sui cereali. La seconda, di contingente ordine politico, sulle contraddizioni logiche della posizione “no global” per quanto riguarda l’alternativa al corrente ordine.
Voglio partire da questa seconda questione per ritornare poi a Marx per altra via, non al Marx citato, ma a un altro, senza per questo voler entrare in polemica esegetica sui testi. La contraddizione starebbe nel fatto che la rappresentazione che il “no global” fa di sé – la conformazione “reticolare” non è assunta come limite connesso al basso grado di sviluppo del movimento, ma come progresso rispetto alle tradizionali forme dell’agire politico – si scontrerebbe con le esigenze di coordinamento della produzione sociale che oggi sono adempiute dal mercato. Poiché il movimento “no global” non vede l’evoluzione del movimento verso forme strutturate come i partiti novecenteschi, come può avvenire l’alternativa al mercato? In fondo, quelle forme partito, al di là delle differenze tra metodologie riformiste o rivoluzionarie, avevano come scopo la conquista del potere statale. Ed è proprio la questione di questo potere che sembra porsi come l’unica alternativa al mercato per il coordinamento della cooperazione sociale.

C’è un punto valido nell’argomentazione di Cavallaro. Limitare il mercato attraverso l’idea di prezzi e profitti giusti è contraddittorio con la forma a rete del movimento, a meno che non si pensi che questa specifica idea di limite non sia l’obiettivo di questo movimento, ma solo una delle sue tappe. Ma nelle reti “no global”, ci sono anche altre anime, discorsi, immaginari, aspirazioni. Il concetto di limite, di rete, di orizzontalità, di democrazia, e di esercizio di potere dal basso, e di diritti quali quello dell’accesso a risorse sociali oltre il mercato e di mobilità dei popoli senza barriere, conducono a una visione dell’agire “economico” che va oltre sia al mercato che allo stato. Inoltre, cosa questa centrale, se si prende questo movimento nel suo insieme non come “no global”, ma come “no global capitalism”, riflettendo sulle oggettive dinamiche globali reticolari di solidarietà e circolazione delle lotte più che su ciò che alcuni esponenti dicono di sé, allora è evidente che il concetto di limite che emerge è un altro: il limite che si vuol porre con gran forza è quello alla crescita come fine a se stessa, come panacea per la soluzione di tutti i mali che affliggono la terra. A Seattle si gridò “no new round, Wto turn around”. Si badi bene, non si disse “basta” a questa o a quella liberalizzazione. Domandare che non ci fosse un nuovo round di liberalizzazione del commercio, che avrebbe intensificato la concorrenza e mercificato nuove sfere di vita, significava porre la questione del limite a un sistema di produzione sociale che, direbbe Marx, è senza limiti. Questa è la vera contraddizione all’interno della quale si pone la questione delle alternative. Lo stesso è avvenuto in forma capillare attraverso le numerose battaglie che in questi anni si sono susseguite soprattutto nei paesi del Terzo mondo (si vedano per esempio i cosiddetti “riots del Fmi”), contro le “nuove recinzioni” intraprese a tutto campo in ogni sfera sociale e di vita da parte del grande capitale e delle sue agenzie.
Questa spinta al porre un limite alla dinamica del capitale non è chiaramente senza ambiguità interne. Ma porre un limite al capitale, è allo stesso tempo rifiutare il limite che il capitale pone alla nostra “imprenditorialità-altra”. Si prenda l’esempio del debito. Siamo per la sua cancellazione (e qui ci sono numerose posizioni parziali che disputano sull’entità e le forme della cancellazione). Ma in ogni caso, siamo tutti d’accordo che le risorse così liberate dal cappio del debito rappresenterebbero non l’alternativa, ma una sua condizione di base. “Provate voi”, ha detto una donna nigeriana al Gsf prima della mattanza, “a gestire una classe di 15 alunni con 50 dollari all’anno”. Ecco il nodo della questione dell’alternativa: non tanto redistribuzione del reddito, ma accesso alle risorse sociali oltre la logica del mercato, un accesso che apre la questione di una gestione-altra dei rapporti di produzione sociale. Ricordate la questione marxiana dell’accesso ai mezzi di produzione? Lo stesso vale per le numerose lotte accumulate in questi anni in tutto il mondo e che pongono da una parte il limite alla crescita come fine a se stessa, e dall’altra l’accesso non mercificato alla ricchezza sociale. E’ di questo limite e di questa inerente domanda, che si diffonde sul pianeta in una varietà di sfere del sociale, che i potenti della terra hanno paura. E’ per questo che schierano polizie che intimidiscono e massacrano. Ma se le risorse sociali si liberano, come si utilizzano? La questione del limite come condizione per le alternative apre quella delle forme delle alternative.

La sfida storica che abbiamo di fronte è che la questione delle alternative non è slegata dalle forme organizzative che questo movimento si dà. Si commette spesso l’errore che mezzi e fini, forme organizzative e obiettivi debbano essere slegati. E’ un errore che in passato ha portato a una tragica dissonanza tra “partito” e “nuova società” promessa dall’azione politica: il primo avrebbe inquadrato le masse, la seconda era l’obiettivo futuro perseguito dal primo. Nel frattempo le aspirazioni reali di milioni di soggetti sociali non immediatamente inquadrabili dalle tattiche del partito dovevano essere subordinate al fine del raggiungimento dell’obiettivo posto da un’élite (si pensi alla marginalizzazione delle donne, ai neri, ai gay, alle basi operaie e contadine recalcitranti rispetto alle direttive partitiche delle quali è piena la storia del comunismo e del socialismo). Questo modello è rifiutato oggi in massa. Il desiderio di rispetto, dignità, democrazia di base ed esercizio di un potere reale sono le caratteristiche di questo movimento. Chiedere “cosa vuole, allora, il popolo di Seattle” come fa Cavallaro, ma in verità molti altri, è domandare “la linea” alla moltitudine, domandare a questa qual è il suo obiettivo futuro. Invece, bisognerebbe guardare come la moltitudine si organizza nella differenza per sapere cosa vuole nella pratica, e come pratica ciò che vuole. Ed è qui che occorre scavare, indagare, analizzare ma anche, e soprattutto, partecipare. La domanda cruciale allora diventa: fino a che punto è oggi possibile organizzare la cooperazione sociale in forme che riflettano le nostre pratiche organizzative, le nostre orizzontalità e reticolarità? Si pensi alla produzione, in senso lato, dei numerosi counter-summit (ultimo quello di Genova), alla produzione dei vari Encuentros zapatisti, alle migliaia di pratiche sociali produttrici di valori d’uso al di fuori del calcolo economico, del rapporto competitivo con l’altro e ispirati da pratiche di solidarietà sociale. Sembra qui parlare di un altro mondo. Neanche lo slogan sulle magliette a Genova era interamente corretto. Un altro mondo non è solo possibile. Un altro mondo ce lo stiamo faticosamente costruendo con tutte le contraddizioni, limiti e ambiguità, attraverso la nostra reticolarità.

La dicotomia stato-mercato (stato come autorità centrale, mercato come sfera della cooperazione sociale) è, letta all’interno della pratica sociale del movimento e delle interazioni tra le sue differenze, una falsa opposizione. Nella rete di questo movimento globale la cooperazione sociale detta le sue norme attraverso democrazia di base, consenso, dialogo, riconoscimento dell’altro. D’altra parte, queste norme dettano a loro volta la modalità di cooperazione sociale. “Autorità” e “cooperazione sociale” stanno tra loro in un rapporto fluido, come in un meccanismo di feedback, non dettato dall’esterno, ma auto-costituito attraverso l’interazione. Hayek credeva nel mercato come il meccanismo che, proprio a fronte dell’astrattezza delle sue regole, permetteva la libertà degli individui. La libertà dell’uomo di Hayek, era una libertà di scegliere all’interno di un menù dato da un meccanismo astratto e quindi esterno alla concretezza dell’individuo stesso, un meccanismo storicamente posto con la forza dello stato. La libertà delle donne e degli uomini di questo movimento è una libertà che vuole scegliere anche il menù, perché la vita non è astratta, ma molto concreta. Questo movimento tende quindi a far propria la battaglia per la libertà, togliendola dall’inganno neoliberale che la vede solo come libertà di scelta di individui isolati e frammentati che non hanno voce in capitolo nello scegliere le regole della loro interazione. Il percorso è necessariamente contraddittorio, perché per mettere tutti d’accordo, tutti devono abbandonare se stessi per riconoscere l’altro. Ma cos’è quell'”associazione di produttori liberi” che auspicava Marx, senza questo meticciato?
Il movimento “no global capitalism” apre dunque due fronti interdipendenti. Uno, il limite al capitale e quindi l’accesso alle risorse sociali oltre il mercato capitalista. Due, il rapporto con l’altro, sulla base del rispetto, reticolarità degna, democrazia di base. Il primo pone la questione dei commons (opposte alle recinzioni che sono alla base delle mercificazione delle sfere di vita). L’altro quella della comunità, cioè per dirla con il Marx dei Manoscritti economici e filosofici del 1844, dell’essere comunitario, per il quale l’altro diventa un bisogno. Commons e comunità: non sarà che nel suo complesso, senza saperlo e senza troppo sbandierarlo con meta-narrazioni, questo movimento sta ponendo la questione del comunismo per il XXI secolo?

* Economista, university of East London