Comunismo e libertà. E’ un vero problema?

Puntualmente, ad ogni restyling del manifesto, si ripropone un interrogativo: perché definirsi ancora e nonostante tutto «quotidiano comunista»? Da ultimo, la questione è stata oggetto di un breve scambio di battute tra un lettore e Valentino Parlato. In termini che suggeriscono qualche rapida considerazione.
Il lettore, Vittorio Melandri, propone di modificare la testatina (inserendovi la parola «libertà») per non contravvenire al principio della necessaria corrispondenza tra le parole e le cose (la loro «essenza»). La risposta di Parlato declina il tutto al futuro: colmare lo iato tra la parola e la cosa implica in questo caso realizzare il comunismo e questo è il compito al quale la testatina del manifesto fa ambiziosamente riferimento, con la consapevolezza che è un «lavoro di lungo periodo». È una risposta abile, ma, temo, insufficiente. Se intendo bene, la questione posta è quella, gigantesca, del rapporto tra comunismo e libertà. Rapporto secondo Melandri problematico, se non irrimediabilmente oppositivo. Essendo sinceramente interessati alla libertà, coloro che fanno il manifesto dovrebbero dunque riconoscere di non essere dei «veri» comunisti. Ma le cose stanno davvero così?
Se volessimo affrontare il problema da un punto di vista astratto («essenzialista», appunto), potremmo cavarcela a buon mercato, osservando che l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione non si pone certo in conflitto con la libertà. Ma è chiaro che il problema non è tanto far quadrare i conti sul piano delle idee. Presa sul serio, la questione del rapporto tra comunismo e libertà chiama in causa la concretezza storica. E potrebbe essere così riformulata: alla luce di oltre 150 anni di storia del movimento comunista, ci si può coerentemente definire comunisti se si ha davvero a cuore la libertà? Vorrei provare a dire in breve perché si può. E perché, quindi, fa bene il manifesto a continuare, caparbiamente, a definirsi comunista. Nella storia «grande e terribile» del comunismo moderno abbondano l’oppressione e la violenza. Sono pagine terribili che ci interrogano duramente. Che ci impongono una ricerca dinanzi alla quale percepiamo tutta la nostra inadeguatezza. Ciò nonostante, c’è un ma che proprio alla luce di questa nostra storia ci induce a ritenere che – a differenza di quanto accade per il capitalismo – il conflitto tra il comunismo e la libertà non sia necessario ma contingente. Le società che hanno tentato (o stanno tentando) di costruire il socialismo non sono mai (o non sono ancora) uscite dalla transizione. Tutte le rivoluzioni operaie e contadine hanno avuto luogo in contesti che, con qualche approssimazione, possiamo definire feudali. In questo quadro va collocato il massiccio ricorso a pratiche coercitive, finalizzato a modernizzare rapidamente l’apparato produttivo (non per l’astratta velleità di competere con i Paesi «avanzati», ma per l’impellente necessità di fornire alla popolazione adeguati mezzi di sostentamento) e a garantire accettabili standard di giustizia distributiva nell’allocazione delle risorse.
Quando parliamo di «società socialiste», discutiamo in realtà di processi di sviluppo tumultuosi e incompiuti. E spesso dimentichiamo che le transizioni sono di norma dinamiche di lunghissimo periodo (la formazione del mondo borghese ha occupato oltre mezzo millennio, contro i novant’anni che ci separano dall’Ottobre) che – ad ogni modo – prima o poi si concludono, producendo assetti sociali più o meno stabili, sui quali soltanto è possibile ragionare con piena cognizione di causa.
Dire questo non significa minimizzare gli errori commessi. Né implica considerare ineluttabili (e tanto meno cancellare) le tragedie che hanno accompagnato la vicenda del «socialismo realizzato». Le gravi responsabilità di tanta parte dei gruppi dirigenti dei partiti comunisti saliti al potere sono fuori discussione. Significa soltanto prendere sul serio i vincoli entro i quali i processi storici si svolgono. Chi considera la libertà un valore prezioso non può non cercare di risolvere i problemi della povertà e dello sviluppo (a meno di concepire la libertà in modo astratto – il che di norma riesce molto bene a chi quei problemi li ha risolti già da sempre). Deve quindi fare i conti con la modernizzazione e con le conseguenze che essa genera sul terreno delle libertà personali. È una contraddizione oggettiva tra mezzi e fini, che non dilegua per il semplice fatto di volerla ignorare. Forse dirsi comunisti oggi significa precisamente questo: avere la consapevolezza di tale contraddizione, degli errori che le si accompagnano, della totale aleatorietà del cimento. Ma anche, nonostante tutto, della sua necessità.