La botta calata dal cuneo fiscale addosso ai lavoratori dipendenti – perché di loro si tratta e delle imprese che ne usano il tempo di vita, quando si parla del taglio di questa voce del ‘costo del lavoro’ – è solo l’ultima scoperta in ordine di tempo sulla finanziaria-puzzle partorita dal governo di centro-sinistra. Solo che alle «imprese» si dà ciò che si promise,ossia il 60 per cento ricavato dal taglio del «cuneo» (con la necessità per lo stato di compensare questo dono con miliardi di soldi pubblici). Ai «lavoratori» invece non si dà nulla. E quindi da loro si prende: non esiste infatti un conto a somma zero fra contendenti di diverso potere, sia nelle questioni macroeconomich e che nei contenziosi politici, di rilievo pubblico non diversamente, per altro, dall’esperienza che ciascuno può fare nelle relazioni della vita quotidiana, a meno che non decida di osare e cambiare il paradigma. Il primo problema, sul «cuneo» è che i sindacati non hanno neppure pensato di poter osare . Per loro, infatti, che il taglio del costo del lavoro non porti nulla ai lavoratori dipendenti, e che viceversa la quota, pur minore, loro promessa sia spalmata su tutti i «contribuenti italiani» sotto una certa soglia di reddito, pare non creare problema. Anzi, sono i sindacati che l’hanno ‘concordata’ col governo, assicurano alcuni leader: perciò la «scoperta» riguarda solo gli ingenui «profani». Dovendo scegliere se allinearsi o no con gli smagati «strateghi», è preferibile ancora sempre scegliere il campo dei «profani», degli ingenui, di chi aveva tante aspettative sulla svolta del governo di centro-sinistra dopo Berlusconi, e oggi passo dopo passo deve fare i conti con le proprie tasche non meno che con le speranze e sogni di futuro – percezione materiale e simbolica insieme. L’immagine di giustizia «redistributiva» di questa finanziaria – che pure c’è – può essere giocata infatti solo sulle ali estreme: da un lato lo sforbiciamento dei redditi sopra i 75 mila euro (ridicolmente contrastato dalla campagna contro la punizione dei «ceti medi», concetto quanto mai sfuggente e comunque, stando al reddito, semmai collocato molto più in basso); dall’altro i vantaggi per chi si trova in fondo alla «scala» per reddito e condizione (ma anche qui colpiscono particolari stoltamente esosi, come la norma per cui ad esempio se un pensionato dimentica di ritirare il referto medico al tempo stabilito, pagherà l’intera prestazione, anche se sarebbe esente da queste spese sanitarie). Perciò, via via che si riesce a leggere l’impervio testo della manovra, pare avvilente il goffo insistere dei manifesti di Rifondazione su Robin Hood. Fuori dalle «ali», invece, c’è da pagare per tutti coloro che pur si trovano nella parte bassa della graduatoria del reddito. E i lavoratori dipendenti, il cui prelievo fiscale è automatico e non disponibile a loro scelte (magari di evasione, come per altri) sono un buon esempio del nocciolo duro nel cuore di questa finanziaria. Di conseguenza i sindacati, che li rappresentano, sono un buon esempio di ciò che sono disposti a sacrificare a loro danno, una volta ingabbiatisi nella morsa dell’«interesse generale». Se infatti l’indifferenza della finanziaria per i lavoratori precari, «parasubordinati», sembra non risvegliare l’attenzione dei sindacati (come se poco li riguardasse), che dire dell’accordo che hanno fatto col governo, accettando un aumento dello 0,3 per cento dei contributi pensionistici a carico dei lavoratori dipendenti – in cambio presumibilmente di una rinuncia a «chiudere una finestra» di uscita per le pensioni di anzianità? Non è un buon anticipo per l’incombente trattativa sulle pensioni. E intanto, già quel carico dello 0,3% vuol dire un taglio medio di 60-80 euro l’anno; più lo 0,3% di addizionale Irpef dei comuni (Moratti l’ha già annunciato) fanno altri 60-80 euro in meno. Ecco che per i redditi sopra i 20 mila euro non si prende più niente (e stando solo alle imposte dirette).