Come si vedono gli italiani? L’inchiesta di Ilvo Diamanti

Domenica scorsa Eugenio Scalfari si chiedeva perché mai la borghesia produttiva – specie quella che schiamazzava all’assise della Confindustria – sia incline all’eversione. In verità nella storia della nostra borghesia sono le fasi democratiche che appaiono parentetiche; vedi il primo dopoguerra con l’appoggio dato al fascismo dal 1919 al 1924, vedi le tentazioni del secondo dopoguerra, alimentate dall’ambasciata americana della signora Luce, da Indro Montanelli e dal papato di Pio XII, che non digeriva nemmeno De Gasperi. Un humus profondo, egoismo e paura, non cessa di fertilizzare il nostro paese, la cui storia secolare non ha conosciuto se non in piccolissime minoranze né la Riforma né la Rivoluzione francese, ha conquistato tardi l’indipendenza e ha conosciuto per secoli i servaggi e la dipendenza. Il Risorgimento, per quanto di pochi, e la Resistenza sono stati l’eccezione.
Ma di questo altri discuteranno. E’ sull’Italia di oggi, che Ilvo Diamanti e l’inchiesta della Demos-Coop della quale ci riferisce sempre su Repubblica di domenica, che vien da fare curiose riflessioni. Che pensano di sé, come si vedono, a conclamata società postmoderna e postfordista, le classi, chiedo scusa, i ceti sociali in Italia? Da qui parte infatti la scelta politica, da quel che ci si sente, da quel che si teme e quel che si spera. E’ questa in senso proprio l’ideologia, parola alquanto dissipata ai nostri giorni. E che non corrisponde esattamente a quel che si è o si ha, proprietà e reddito – come questa inchiesta dimostra. E neppure ormai alla distribuzione usata fino a poco tempo fa dall’Istat, fra agricoltura, industria, servizi e neppure fra dirigenti e dipendenti e autonomi. Non che dispiacerebbe avere una possibilità di confronto più precisa fra l’essere e il pensarsi, prospettiva che c’è di solito nelle ricerche di Giuseppe de Rita. Ma vediamo quel che va dicendosi l’ideologia italiana.
Intanto che il 40 per cento del paese si definisce «classe popolare», più di metà si definisce «ceto medio», e neanche il 10 per cento si considera dirigente o borghese. Gli operai sono affogati nelle classi popolari, e i proprietari di barche e due o tre case fra il ceto medio. Curioso che si sentano classe popolare non solo gli operai, i disoccupati, (i contadini sono assenti o abbienti), le casalinghe ma più del 40% dei pensionati e degli impiegati. E un funzionario su tre e financo un imprenditore su quattro! Un libero professionista su cinque, un commerciante su sei! Mentre non si sentono affatto classe popolare gli insegnanti, che guadagnano sicuramente meno della maggior parte delle categorie sunnominate. Gli insegnanti si vedono all’85% nel ceto medio, tali erano, tali sono rimasti a pensarsi.
Dal lato opposto, pochissimi si definiscono classe dirigente o semplicemente borghesi. I miei genitori si ritenevano borghesi anche quando furono sul lastrico. Pare che oggi borghese si dice un funzionario su quattro, e neanche un imprenditore su tre – i Monorchio, i Montezemolo? Sarà perché funzionari sono anche quelli dell’Anagrafe, e la media dei nostri imprenditori, parola soddisfacente, ha un dipendente e mezzo, e sgobbano come schiavi (ma per sé)? Inoltre tutti coloro che si definiscono «classi popolari» ritengono che l’Italia è in declino o al più stabile, ma dove sono finiti i piccolo-borghesi, troppi o troppo pochi? Come si classifica chi ha una barca e tre case? Sta di fatto che per tutti indistintamente domani sarà peggio di oggi.
Curioso anche che in tutti il concetto di professione prestigiosa sia ancora tradizionale (a meno che mentano): in Italia sono venerati i medici, i giudici, gli scienziati. L’imprenditore viene un bel po’ dopo. Noi giornalisti siamo alquanto in basso, appena prima del carabiniere, e dopo di noi viene il prete – oh Ratzinger. Quella che pareva la figura sociale più innovativa e ambita – il programmatore di siti internet – è depressa. Al fondissimo del prestigio la velina e il disc jockey.
Non è un paese ottimista, questo è certo. Né è innervato da una riconoscibile spinta. Neanche, sostiene Diamanti in polemica con De Rita, realmente «cetomedizzato» se tanti si collocano nel girone già infernale delle classi popolari. E’ come se l’operaio di fabbrica, quasi scomparso con la medesima, si fosse lasciato dietro un alone sempre più vasto, che assorbe i non operai e i non ceto medio. L’industria, specie quella della produzione materiale, latita ma la gente si percepisce più dipendente d’una volta. Anche se ha la casa (certo altro è stare in via Condotti altro a Tor Bellamonaca) e qualche azione nel portafoglio. Non basta per sentirsi stabilmente ceto medio, e tanto meno borghesi. Cioè forti, solidi. E’ questo il dato più parlante. Assieme a quello del voto, che dovrebbe far sussultare i nostri politici. Inutile cercare di metter il sale sulla coda a chi si sente borghese, moderato o no – costoro votano compatti per il centrodestra. Su 7 di loro solo mezzo voto va a Prodi. Mentre la «classe popolare» vota al 62% centrosinistra, ma al 40% centrodestra. Il bacino popolare avrebbe dentro di sé, dunque, il populismo. La borghesia, per tornare al ragionamento di Scalfari, sta tutta a destra e senza stati d’animo.