Comandante Bulow, 90 anni di Resistenza

I NOVANT’ANNI DI ARRIGO BOLDRINI. Compleanno speciale oggi per il più noto dei comandanti partigiani italiani: il mitico Bulow, medaglia d’oro della Resistenza, comandante della 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini”, membro della Consulta e dell’Assemblea Costituente

Arrigo Boldrini è stato anche parlamentare e senatore, ininterrottamente fino al 1994, dirigente nazionale del Pci, presidente nazionale dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani e presidente della “Fondazione Corpo Volontari della Libertà”. Un uomo che ha partecipato a mille battaglie contro i fascisti e i nazisti, che è rimasto ferito e ha lottato, per mesi e mesi nelle valli di Comacchio, lungo il Senio, nelle piccole e grandi località intorno a Ravenna, fino alla liberazione della città. Un mitico e straordinario personaggio, eletto comandante dai suoi uomini, ammirato dai generali inglesi e americani, ricercato, giorno dopo giorno, dai nazisti che lo credevano, con quel nome di battaglia, uno di loro passato al nemico. Bulow ha visto i massacri nazisti e fascisti, gli incendi delle case contadine della pianura, le impiccagioni e le fucilazioni della popolazione civile che appoggiava i partigiani. Ha avuto molti dei suoi uomini e delle staffette, torturati a morte e ha visto quelle grandi fosse comuni piene di vecchi donne e bambini , dopo che era passata la “brigata nera” che faceva da battistrada ai massacratori tedeschi. Ha visto la morte in faccia decine di volte e su di lui sono stati scritti decine di libri e migliaia di articoli di giornale. Ha girato tutto il mondo per rappresentare la Resistenza italiana e i combattenti per la libertà. È sempre stato un uomo di profonde e radicate convinzioni politiche, rigoroso, rispettoso delle opinioni diverse dalle sue. Amico intimo di Benigno Zaccagnini con il quale, da ragazzo si incontrava sempre in parrocchia, di don Bedeschi, di decine di resistenti in tutta Europa di molti generali inglesi e americani che aveva conosciuto nei giorni di guerra, lo conoscono tutti. Fin da quando, nella sua città, era intenso il dibattito sulla “pianurizzazione” della guerra di montagna. Vale a dire il tentativo, poi riuscito, di portare anche giù nelle valli, i metodi di combattimento dei compagni della montagna, il loro “mordi e fuggi”, i loro rapporti diretti e immediati con le Squadre di azione della città e con i gappisti che si sacrificavano, spesso, per proteggere le unità partigiane più grandi.
Su Bulow, la sua vita di comandante, di combattente per la libertà, di uomo politico, si potrebbero raccontare storie incredibili, dei mesi sui monti, tra i canneti e le valli dell’isola di Spinarone,su Comacchio, Milano Marittima, sul Delta del Po, sui giorni della Liberazione, su quelle cerimonie dopo la vittoria, insieme agli alti ufficiali alleati nella Ravenna ormai “pulita”. Ma ci sono alcune esperienze sue e dei suoi uomini che hanno fatto il giro del mondo, tanto sono state singolari, uniche. In particolare gli incontri, al fronte, nei giorni immediatamente successivi alla liberazione, con il principe Umberto di Savoia, il “re di maggio” che non era mai venuto prima in contatto con gli uomini della libertà. Furono anche le uniche volte in cui il figlio di Vittorio Emanuele III (che aveva permesso al fascismo di andare al potere) aveva preso di rettamente contatto con una straordinaria realtà prima completamente ignorata: quella dei partigiani e della loro organizzazione, quella dei partigiani comunisti in particolare e quella dei soldati che si erano arruolati volontariamente nel nuovo esercito italiano, nato a Sud, nell’Italia libera, tra i mille dubbi degli alleati.
Sono storie straordinarie, mille volte raccontate nei libri e al limite della mitologia resistenziale. Eppure tutte vere e singolarissime, frutto di un momento straordinario e terribile per il nostro Paese distrutto dalla guerra, ancora percorso da fascisti e nazisti, ma con migliaia e migliaia di giovani e ragazze che avevano deciso di battersi per la libertà a qualunque costo. Anche per dimostrare che la “Patria non era morta”, ma che era necessaria una Patria nuova, diversa, senza la dittatura e che avrebbe portato libertà e giustizia sociale.
I novanta anni di Bulow sono davvero l’occasione adatta per ricordare brevemente alcune di queste storie.
Ma da dove era uscito il personaggio e perché l’incredibile nome di battaglia di Bulow?
Arrigo Boldrini, è nato nel 1915, quando il paese era appena entrato nella fornace della “grande guerra”. Figlio di un “vetturale” di Ravenna, mezzo anarchico e mezzo repubblicano, ha sempre vissuto in una casa dove non c’erano mai soldi. Arrigo passava le giornate tra la scuola e la parrocchia di Santa Maria di Porto, dove giocava con un ragazzo vivacissimo, ma un po’ bigotto che si chiamava Benigno Zaccagnini. Il parroco era un antifascista del gruppo di don Minzoni, il sacerdote ucciso dai fascisti. Boldrini si era iscritto all’Istituto Agrario di Cesena e stravedeva per Verdi e Rossini. Aveva raggiunto il diploma, ma era scoppiata la guerra e lui era finito al corso allievi ufficiali 94° Reggimento fanteria di Fano. Poi, un arruolamento brevissimo nella Milizia del regime, con la segreta speranza di non essere mandato in guerra. Quindi il congedo per motivi di salute, con l’aiuto di un medico antifascista. Ed ecco, subito dopo, il lavoro per l’Eridania e successivamente il richiamo e la guerra in Jugoslavia.
Quindi il ritorno in licenza per la morte della madre e l’arrivo dell’8 settembre con la scelta partigiana. Intanto, mandato a Napoli per lavoro, aveva conosciuto Libero Bovio, la stellina Nanda Primavera e tutto un coltissimo gruppo di antifascisti meridionali. Anche nella sua Ravenna, il contatto con gli antifascisti e i comunisti, non era mai venuto meno.
Ma il nome di battaglia “Bulow” come arrivò? Lo racconta lo stesso Boldrini a Cesare De Simone, nel libro “Gli anni di Bulow”.
«Fu un barbiere comunista, Michele Pascoli, autodidatta e studioso appassionato di storia napoleonica, a dirmi in dialetto, mentre discutevo della strategia per combattere fascisti e nazisti: “Te tat’è da ciamé Bulow” (Tu ti devi chiamare Bulow). Stavamo discutendo della battaglia di Waterloo. Pascoli, verso la fine della guerra, venne fucilato dalla Brigata nera al ponte degli Allocchi. Da quel giorno, i compagni, mi chiamarono sempre così. I tedeschi pensarono sul serio che il capo partigiano Bulow, fosse un austriaco che aveva mollato il loro esercito».
Dall’8 settembre in poi, inizia la lotta durissima contro i nazisti e i fascisti. Dalla montagna si passa alla pianura e alle colline con continui colpi di mano. È la fase della “pianurizzazione” (orrendo neologismo intorno al quale si trovarono a discutere i compagni nell’illegalità e non certo dal punto di vista semantico). Senza il continuo aiuto dei contadini , delle donne, degli abitanti della Romagna e degli operai delle fabbriche, la lotta partigiana in pianura non sarebbe mai stata possibile. Bulow lo ha sempre spiegato. La popolazione civile pagò, comunque, prezzi altissimi per questa “fraternità” con i partigiani.
La 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini”, quella di Bulow, alla fine di mesi e mesi terribili, insieme agli alleati e ai soldati del gruppo di combattimento “Cremona”, libera Ravenna. In Piazza Garibaldi, il 4 febbraio 1945, alle 10, su un palco improvvisato, ci sono i generali Mc Kreery, un famoso ufficiale inglese,che comanda l’8ª armata, il generale Keightley, comandante del V Corpo d’armata britannico e il generale Charles Foulkes, comandante del I Corpo canadese, oltre al sindaco della Liberazione e al prefetto. Tutti aspettano Bulow, il famoso comandante partigiano. Sono seccati perché Bulow continua a non arrivare. Ma è già sul palco e quando si presenta, piccolo, mingherlino, con una divisa senza gradi, lo stupore è generale. Mc Kreery, anni dopo, racconterà alla “Bbc”: «Conoscendo bene le leggende su Bulow, mi aspettavo un omone grande e grosso e dalla faccia feroce. Invece, il nostro “pimpernel” (l’imprendibile, l’inafferrabile) era quell’ometto tranquillo, senza gradi e con il basco in testa come tutti i partigiani della Ventottesima».
La banda del corpo canadese, in alta uniforme, intona la marcia del Piave e il comandante inglese appunta la medaglia d’oro sul petto di Bulow. Qualche ora dopo, tutti sono già tornati al fronte.
Bulow, in quel periodo, è per la seconda volta a Roma libera, per rappresentare i combattenti dell’Italia occupata. È una grande manifestazione in Piazza del Popolo per celebrare la “giornata del Partigiano e del Soldato”. Sul palco, ci sono il presidente del consiglio Ivanoe Bonomi, il ministro della guerra Casati, Bulow e Scoccimarro, ministro per l’Italia occupata. Dopo i discorsi, Bonomi appunta la medaglia d’oro su una bandiera tricolore da affidare, su al Nord, al Corpo Volontari della Libertà. È una bandiera che è stata cucita dalle donne fiorentine, ricamata dalle suore di Santa Croce e che è stata l’insegna di combattimento per la Divisione partigiana “Potente”. Poi è stata portata a Roma da una gappista. Bulow afferra quella bandiera, decorata con la medaglia d’oro per ricordare i vivi che stanno combattendo a Nord e i morti, e si avvia a piedi, nel cuore di Roma, verso l’Altare della Patria. Lo segue un immenso corteo di centomila persone. Bulow sale le scale del Milite Ignoto e depone la bandiera davanti alla tomba del soldato sconosciuto, morto in qualche angolo d’Italia. Sono momenti di intensa emozione. Tra il nereggiare della grande folla, c’è chi grida, chi piange, chi applaude, chi agita le bandiere. Bulow riparte, dopo una celebre intervista alla radio, per tornare a Nord dove si combatte ancora.
Ed ecco i famosi incontri, diretti e indiretti, del celebre comandante partigiano, con il principe Umberto. Sono fatti mille volte raccontati dalla memorialistica partigiana e ripresi in tanti libri di storia. Il primo avviene il 15 maggio del 1945, ad Adria, al comando del Gruppo di combattimento “Cremona”. Sono stati invitati a pranzo, dal generale Clemente Primieri, anche Bulow e il suo stato maggiore. Bulow finisce a tavola, proprio di fronte ad Umberto. Nasce una prima discussione e Umberto dice al comandante partigiano: «Lei che avrebbe fatto al posto mio, l’8 settembre?». Bulow risponde: «Maestà, io mi sarei fatto paracadutare a Nord dai combattenti monarchici». Il principe, abbassando la voce e come un ragazzino colto in fallo, risponde: «Mio papà non ha voluto». Sulla tavolata piomba un terribile silenzio pieno di imbarazzo. Il principe, in quel momento, rappresentava l’Italia ed era il capo supremo delle forze armate.
Verso la fine del gennaio 1945, Umberto giunge improvviso al comando della Ventottesima, schierata nei pressi di Sant’Alberto e già inquadrata, insieme alla “Cremona”, nell’VIII armata. Viene ricevuto dal commissario politico “Zalet” che è in cucina insieme al cuoco partigiano che si chiama Stignani. Stanno friggendo delle frittelle di riso. Zalet fa gli onori di casa e invita il principe negli uffici, ma Umberto rimane in cucina. Il cuoco offre delle frittelle che il principe mangia con gusto. Poi chiede se i comandanti dei reparti sono tutti ex ufficiali. Zalet risponde di no e prosegue raccontando che quasi nessuno ha fatto il servizio militare. Il principe insiste: «Lei è un ufficiale vero?», Zalet risponde di no. Umberto domanda ancora: «Che mestiere faceva prima della guerra?». Zalet, senza un minimo di imbarazzo, risponde: «Il barrocciaio». Il principe sorride ed esce seguito dagli attendenti.
La faccenda più clamorosa avviene, però, il 16 maggio. Umberto, ancora una volta, è in Romagna. Deve passare in rassegna il “Cremona” e anche i partigiani di Bulow. C’è tanta preoccupazione in giro. Molti partigiani non ne vogliono sapere di rendere gli onori militari ad un Savoia. Bulow, alla fine, convince tutti e insegna perfino come presentare le armi all’ospite. Nessuno lo ha mai fatto fino ad allora. Ed ecco il momento dell’arrivo di Umberto davanti allo schieramento dei soldati in divisa del “Cremona” e dei partigiani della Ventottesima che hanno il fazzoletto rosso al collo e un bracciale con la scritta “Partisan”. Una banda suona la marcia reale e si scatena subito il finimondo. I soldati in divisa del nuovo esercito italiano, rovesciano i fucili e presentano le armi con il calcio in alto. Alcuni sputano addosso ad Umberto che è accompagnato da alti ufficiali anche inglesi. Altri intonano la vecchia canzone anarchica che dice: «Già trema la casa Savoia/ intrisa di fango e di sangue/ si sveglia il popol che langue… ». I soldati toscani, urlano minacciosamente: «La corda al collo ci vuole per i Savoia». Si sentono ancora fischi e insulti ovunque. Umberto è bianco in volto e ha davvero paura. Accelera il passo fin quasi a correre. All’improvviso, arriva davanti ai partigiani di Bulow con il fazzoletto rosso al collo che, in silenzio assoluto e immobili, presentano le armi.
Giunto alla macchina per andar via in tutta fretta, il principe stringe la mano a Bulow e chiede: «Senta, ma lei come riesce ad imporre ai suoi uomini una tale disciplina?». Boldrini risponde: «Imporre? Noi non imponiamo niente. È solo autodisciplina». E l’ultimo incontro tra i due. Si saprà poi che l’annunciata visita di Umberto aveva suscitato tante, tantissime preoccupazioni. Al punto che i dirigenti nazionali del Pci avevano chiesto a Bulow di togliere i proiettili dalle mani dei partigiani. Insomma, il presentat ‘arm, doveva avvenire con i mitra scarichi. Così era avvenuto. Umberto, in quel momento, rappresentava l’Italia e doveva essere protetto ad ogni costo.
Queste sono solo alcune delle storie di Bulow, il partigiano più famoso del nostro Paese. Durante una manifestazione per il Cinquantesimo della Resistenza, disse al microfono: «Noi abbiamo combattuto per quelli che c’erano, per quelli che non c’erano e anche per chi era contro… ». Questa è sempre stata la sua profonda, autentica e leale convinzione.
Ora vive in una casa di riposo e festeggerà i novant’anni con il figlio Carlo e, forse, con qualche vecchio compagno.
Auguri e un abbraccio comandante.