Ogni mattina negli Stati Uniti circa 2 milioni di persone iniziano e concludono la loro giornata dietro le sbarre di una prigione federale, statale o di contea, mentre altri 5 milioni la trascorrono tra braccialetti elettronici, arresti domiciliari, appuntamenti con agenti della probation e test antidroga; in tempo di elezioni poi, 4 milioni di cittadini americani rimangono a casa, privati del diritto di voto in seguito a una condanna penale. E tuttavia, questi numeri non sembrano segnalare alcuna appartenenza razziale o di classe, diversamente dalle esistenze marginalizzate, sorvegliate e recluse che essi freddamente rappresentano: si deve aggiungere allora, che un giovane afroamericano su 3 è sottoposto a controllo penale carcerario o extra-murario, 1 su 4 è escluso dall’elettorato per condanne pregresse. Se la popolazione detenuta fosse computata nei tassi di disoccupazione americani, questi ultimi registrerebbero un balzo del 7%.
Da queste cifre inquietanti prende avvio Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa” (Laterza, pp. 212, E 18). Con questo saggio denso e rigoroso Lucia Re – già redattrice del prestigioso Centro di filosofia del diritto internazionale Jura Gentium – offre un notevole contributo al dibattito sulla deriva punitiva e carceraria che ha investito i sistemi penali occidentali a far corso dagli anni ’70 del secolo scorso: un fenomeno che ha attirato l’attenzione preoccupata di sociologi della devianza e criminologi critici, senza tuttavia sollecitare altrettanta riflessione da parte di un’opinione pubblica attraversata da pulsioni punitive ispirate alla «tolleranza zero» e dunque propensa a invocare sempre maggiore severità nei confronti della criminalità di strada.
Spesso consegnato con eccessiva disinvoltura alla rassicurante illusione di un «eccezionalismo americano» di difficile esportazione, il grande esperimento di incarcerazione di massa avviato negli Stati Uniti dall’amministrazione Reagan e successivamente rilanciato da Bush, Clinton e poi ancora Bush, ha al contrario esibito negli ultimi venticinque anni una straordinaria capacità espansiva, investendo progressivamente anche l’Europa: se infatti l’ossessione punitiva statunitense appare ancora lontana dall’esperienza europea – almeno in termini assoluti, considerando che gli Usa detengono il poco invidiabile primato mondiale in termini di incarcerazione – non si possono tuttavia trascurare alcuni segnali preoccupanti che provengono anche dal vecchio continente. Tendenze che non riguardano tanto la dimensione numerica della popolazione carceraria europea – peraltro in crescita verticale soprattutto in paesi come il Regno Unito, tradizionale canale di importazione delle più deteriori politiche penali americane – quanto la sua composizione «etnica» e sociale: basti pensare che la sovra-rappresentazione dei migranti nelle carceri europee è significativamente più elevata di quella, già drammatica, degli afroamericani nel sistema penitenziario statunitense – in Italia, il 30% dei detenuti adulti è di origini extracomunitarie, mentre per i minori il dato supera ormai il 60%. Una situazione che Lucia Re sintetizza con efficacia quando scrive che «le carceri occidentali sono carceri nere che si candidano, nell’indifferenza generale, a essere il principale strumento di segregazione razziale del terzo millennio».
Ma ancora una volta le statistiche si rivelano inadeguate a rappresentare fino in fondo i drammatici risvolti umani di quello che – parafrasando Foucault – è stato definito come un secondo «grande internamento». Il cronico sovraffollamento degli istituti di pena e il drastico ridimensionamento delle risorse destinate alla risocializzazione e al reinserimento lavorativo – per non dire di una sistematica compressione dei diritti dei reclusi, spesso apertamente perseguita con politiche penitenziarie orientate a sopprimerne la personalità e ogni autonomia (si pensi solo al divieto di fumare introdotto in gran parte delle carceri americane) – si traduce in una realtà quotidiana di suicidi, auto-mutilazioni, violenze e abusi tra detenuti. A fronte di questo scenario, si pone all’interprete il problema di delineare da una parte una plausibile spiegazione dei processi di carcerizzazione che hanno accompagnato il tramonto del XX secolo e l’alba del XXI, e di tracciare dall’altra le coordinate di una politica penale alternativa, capace di indicare una possibile inversione di tendenza. Nel suo saggio Lucia Re sembra affrontare con lucidità entrambe le sfide.
Sul versante analitico, l’autrice si sottrae a due tendenze interpretative in qualche modo speculari: la prima consiste nel ritenere che le politiche penali neo-autoritarie degli ultimi decenni costituiscano una semplice reazione del sistema politico a un presunto aumento della criminalità di strada – segnalato a sua volta dalla crescente domanda di sicurezza espressa dalle opinioni pubbliche dei paesi occidentali; la seconda, da un punto di vista del tutto esterno al sistema penale, suggerisce invece che la svolta punitiva delle democrazie contemporanee sia da ricondurre a fattori «strutturali» – più in particolare, alle trasformazioni dell’economia globale e quindi a una rinnovata esigenza di disciplinamento della forza lavoro postfordista. Se la prima interpretazione si rivela semplicemente falsa alla luce dei dati sulla criminalità – che evidenziano una stabilità se non una diminuzione delle attività criminose negli ultimi anni -, d’altra parte l’ipotesi strutturale – ampiamente sviluppata dalla criminologia di orientamento neomarxista – tenderebbe a sottovalutare il peso specifico delle politiche penali, cedendo non di rado alle lusinghe del determinismo economico.
In Carcere e globalizzazione Re percorre una terza via che le consente di smascherare la falsa neutralità scientifica di quei criminologi che descrivono l’incarcerazione di massa come riflesso di una criminalità fuori controllo, senza però consegnare le proprie riflessioni a ipotesi «cospiratorie» che nel sistema penale tendono a scorgere solo la longa manus del capitalismo globale. Le derive punitive degli ultimi decenni – dalla tolleranza zero alla war on drugs alla guerra al terrorismo nel suo versante domestico – si svelano allora agli occhi dell’autrice nel loro carattere relativamente autonomo: a delinearne la fisionomia concorrono da un lato tendenze neo-autoritarie e populiste cui non è estraneo il disegno di un disciplinamento sociale e razziale delle classi marginali a sua volta funzionale alla logica economica del neoliberismo, ma dall’altro anche dinamiche interne al sistema punitivo che rendono possibili tali effetti di assoggettamento e li moltiplicano nella quotidianità di una giustizia penale selettiva.
Più in generale, le strategie di grande internamento che solcano il presente sembrano allora configurare un ulteriore capitolo di quella «globalizzazione dall’alto» che su altri versanti si va consolidando intorno alle coordinate della flessibilità assoluta, dell’erosione dei diritti di cittadinanza e di una guerra al terrorismo declinata sempre più come guerra all’immigrazione: in questo senso – e siamo alla dimensione prettamente politica dei temi trattati da questo saggio – la possibilità di costruire un’opposizione radicale alla deriva penale-globale del terzo millennio dipende in ultima analisi dalla nostra capacità di invertire quelle coordinate.