Cocoprò, a termine, interinale Il Protocollo ti lascia precario

Sei cocoprò? Con il nuovo Protocollo del governo puoi rimanerlo a vita, licenziabile in ogni istante. Esattamente come sotto l’esecutivo Berlusconi. Sei interinale? Anche in questo caso: il tuo contratto può essere ripetuto all’infinito. Sei a tempo determinato? Sommi contrattini fino a 36 mesi. E dopo? Vai con l’impresa e un assistente sindacale presso la Direzione provinciale del lavoro: se c’è il tuo consenso si può fare l’ennesimo contratto a termine. E’ ovvio che sarai forzato, pur di non perdere il posto, a firmare. Esattamente (fatta salva la forma) come sotto il governo Berlusconi. Stiamo parlando di almeno 3 milioni e mezzo di persone in Italia (appunto i precari: 1 milione di parasubordinati, oltre due di contrattisti a termine, diverse centinaia di migliaia di lavoratori interinali) per cui il Protocollo del welfare non cambia una virgola rispetto al passato: rimangono kleenex , fazzolettini usa e getta nelle mani delle aziende.
E così è davvero incomprensibile che il ministro del Lavoro Cesare Damiano difenda il Protocollo (Repubblica di ieri) parlando di «netta discontinuità con l’esecutivo precedente», perché chi sta nei posti di lavoro non ha visto la sua condizione migliorare. Il ministro poi passa a una quasi surreale difesa della legge 30, dopo che lui stesso, come estensore del Programma dell’Unione, ha scritto (pag. 162) che la coalizione «è contraria ai contenuti della legge 30 e dei decreti 276 e 368» e «punta al superamento della legge 30». Rispondendo a una domanda sulle critiche della sinistra alle attuali modifiche della 30, infatti risponde: «Allora bisognerà mettersi d’accordo, perché non si può scoprire che gli effetti della legge 30 sul mercato del lavoro sono stati modesti e poi farci sopra una battaglia politica». Dunque sbaglia chi chiede almeno le modifiche annunciate nel programma?
Nel Programma dell’Unione (sempre pag. 162) Damiano scriveva anche: «Proponiamo che le tipologie di lavoro flessibile siano numericamente contenute e cancellate quelle più precarizzanti: ad esempio il job on call, lo staff leasing, il contratto di inserimento». Se lo stesso ministro del Lavoro ha scritto nel 2006 il Programma e, qualche giorno fa, il Protocollo sul welfare, perché oggi si limita a cancellare soltanto il job on call?
Affermare infine che c’è stata una svolta con l’assunzione di 18 mila lavoratori dei call center non solo offende i restanti 3 milioni e mezzo di precari ancora a piedi (ne costituiscono un timido 0,5%), ma fa saltare all’occhio la triste realtà degli stessi operatori telefonici: 40 mila outbound non sono stati assunti proprio a causa della «Circolare Damiano», che permette di escludere dal lavoro dipendente chi fa le telefonate invece di riceverle. Le stabilizzazioni, poi, si sono arrestate al 30 aprile scorso, data limite degli incentivi in finanziaria. Migliaia di operatori, anche inbound, sono ancora precari.
Ma ora analizziamo alcune parti del Protocollo, per vedere come non si annuncino svolte per il futuro.
Contratti a termine: la proposta Damiano rinnega il Programma dell’Unione, dove si dice (sempre pagina 162): «Crediamo che tutte le tipologie contrattuali a termine debbano essere motivate sulla base di un oggettivo carattere temporaneo delle prestazioni richieste e che non debbano superare una soglia dell’occupazione complessiva dell’impresa». Infatti, nel Protocollo si lascia (così come nella riforma 368 del 2001 di Berlusconi) completa libertà al datore di lavoro sulle causali per accendere i contratti a termine, mentre addirittura si impedisce ai contratti nazionali di porre tetti «in caso di avvio di attività d’impresa, attività stagionali e sostituzioni», peggiorando dunque la stessa normativa berlusconiana. Ma è il «tetto dei 36 mesi» il vero capolavoro, perché anche qui, seppur mascherato da un miglioramento, si profila un peggioramento rispetto all’oggi. Il protocollo prevede che dopo una somma di 36 mesi di contratti a termine, se l’impresa vorrà farne uno nuovo, dovrà recarsi con il lavoratore, assistito da un rappresentante sindacale, presso la Direzione provinciale del lavoro. Non essendoci causali per i contratti a termine, che mezzi avranno il lavoratore e il sindacato per opporsi? In pratica si chiede di certificare la permanenza nella precarietà (potrebbero peraltro fiorire sindacati accomodanti), impedendo di fatto al lavoratore di fare causa (oggi, al contrario, c’è almeno lo sbocco legale). Insomma, si va all’ufficio pubblico solo per mettere un timbro. Altro che tetto di 36 mesi: la «via Damiano» permette la reiterazione all’infinito. Per porre un’alternativa efficace ed equa per il lavoratore, la sinistra potrebbe pescare ad esempio nella Proposta di legge Alleva o in «Precariare stanca»: prevedono l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato dopo un limitato periodo di contratti a termine.
Lavoro interinale: i «fratellini minori» dei contrattisti a termine, quelli che cioè passano per le agenzie di lavoro in affitto, non hanno neppure la finzione del tetto. La somministrazione resta libera e reiterabile all’infinito, senza causali né tetti.
Job on call: attenzione perché non è che il Protocollo elimini del tutto il lavoro a chiamata. E’ vero che propone di abrogarlo, ma poi mira anche a creare una commissione per «definire una forma di part-time per brevi periodi che potrebbe assumere la stessa funzione».
Staff leasing: non solo la somministrazione di lavoro a tempo indeterminato non viene eliminata, ma addirittura si stanziano risorse per incentivare le agenzie interinali ad assumere. Una commissione studierà come riformare lo strumento.
Part time: i contratti collettivi possono introdurre le cosiddette «clausole elastiche» (cioè la possibilità per l’impresa di cambiarti il turno a suo piacimento), ma possono opporre rifiuto solo i lavoratori/trici che hanno «comprovati compiti di cura».
Lavoro a progetto: i cocoprò, i cosiddetti «giovani», vengono utilizzati per finanziare la riforma dello scalone. Ben 4,4 miliardi sui 10 complessivi verranno dall’aumento dei loro contributi (1 punto ogni anno dal 2008 al 2010). Dunque non solo sembrano condannati a rimanere precari (pure qui si invita la sinistra a pensare anche a loro, pescando dalle sucitate proposte di legge), ma per giunta dovranno pagarsi l’aumento con il loro netto, poiché non viene indicato che l’aumento dovrà pesare sul datore di lavoro. Non sarebbe molto meglio, anche per sostenere la riforma delle pensioni con maggiori risorse, parificarli ai dipendenti?