Claudio Grassi in risposta all’articolo di Caprili

Carissimi,
oggi il compagno Caprili su Liberazione risponde al mio articolo uscito sabato (non domenica come erroneamente scrive) sempre su Liberazione.

Lo pubblichiamo nuovamente nel caso vi fosse sfuggito.

Mi pare utile pubblicare nuovamente anche il mio articolo poiché, come potrete constatare leggendolo, il compagno Caprili mi contesta cose che non ho mai scritto.
Si tratta di una tecnica molto vecchia. Far dire al tuo interlocutore cose che non dice, palesemente insensate e poi contestare quelle.

Funzionava così nei momenti più bui della nostra storia che, evidentemente, mentre la si critica non si disdegna di riutilizzarla.

Peccato. Così facendo si rimuove una discussione vera tra di noi che, vista la nuova situazione determinatasi nell’Unione e il nostro non esaltante risultato elettorale, sarebbe quanto mai necessaria.

Claudio Grassi

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“Il primo punto del programma? La partecipazione

Liberazione, 1 giugno 2005

di Milziade Caprili

Il compagno Claudio Grassi, in un articolo uscito domenica scorsa su Liberazione*, rilancia il tema della centralità del Programma nel rapporto tra Rifondazione comunista e centrosinistra, insomma nella costruzione dell’Unione. Una centralità, par di capire, che sarebbe trascurata o gravemente sottovalutata dalle scelte del Prc negli ultimi due anni. L’accusa, nemmeno tanto velata, è dunque quella di una (nostra) condotta di tipo «politicista», in realtà verticista: in fondo troppo attenta alle contraddizioni che stanno attanagliando i leader della ex-Fed, e troppo poco attenta, viceversa, a valorizzare il ruolo, forse l’autonomia del nostro partito.

Io credo che questa accusa sia non solo infondata, ma sia anzitutto l’esito di una analisi della fase, come si diceva una volta, diversa da quella della maggioranza del partito. E che da essa discenda, con un paradosso solo apparente, una posizione «iperpolitica», incline a un rilevante riduzionismo tatticista alla fin fine molto difensivo. Per tre ragioni.

Intanto, c’è una diversità di interpretazione dei processi che si stanno sviluppando sotto i nostri occhi.

Il compagno Grassi, cioè, rappresenta l’Ulivo come una realtà compatta, quasi omogenea, quasi in marcia verso il «partito unico riformista». Non è così. Noi stiamo assistendo, proprio in queste settimane, ad una crisi evidentissima dell’area riformista che ha, addirittura, aspetti convulsivi e mette in causa la stessa leadership di Romano Prodi. Un problema di «lor signori»? Un contrasto tra leader che riguarda il Palazzo? Ma questa a me pare davvero una lettura riduttiva e anzi fuorviante. La verità è che il «partito riformista» sta andando in pezzi perché sono in seria difficoltà i suoi riferimenti ideologici: il neoliberismo temperato, l’idea di “terza Via”, l’ipotesi *adattativa* che pretende di coniugare logica del mercato e giustizia sociale. Dentro la nozione di «riformismo», dunque, emergono oggi tanti, diversi e perfino contrastanti «riformismi». Se non vediamo questo dato, rischiamo di sottovalutare gravemente le nostre stesse possibilità di incidere sulla e nella politica. Giacché questo è il nostro problema reale: non «convertire» alle nostre tesi i leader dei Ds, o della Margherita, ma moltiplicare la nostra capacità di influenzare l’Unione, ben al di là dei nostri confini attuali. Lavorando per far emergere, dentro le contraddizioni del riformismo, un diverso baricentro strategico.

In secondo luogo, c’è la questione di come far avanzare realmente le nostre scelte programmatiche. Grassi stesso si interroga: «Come si può costruire un programma comune di governo se si dicono cose così distanti sulla politica estera e sulle grandi scelte di politica economica?». Già, come si può? Se si trattasse soltanto, o prevalentemente, di dar vita a una mediazione tra noi, i Ds, la Margherita e così via, il risultato sarebbe scontato in partenza. E sarebbe un risultato negativo, dove noi conteremmo per la nostra percentuale, o giù di lì. Se ne potrebbe concludere, fin da adesso, che non bisogna neppur tentare alcun accordo con l’Unione: che Rifondazione comunista non può in nessun modo partecipare ad un accordo politico e programmatico con le altre forze del centrosinistra. Sarebbe una responsabilità politica serissima: il Prc potrebbe o dovrebbe dire al Paese che ritiene secondario il pericolo di vittoria del centrodestra alle prossime politiche. Ma questa è una conseguenza che il compagno Grassi non trae, o almeno non trae esplicitamente. E allora? E allora, fuori dalle fughe propagandistiche, l’unico percorso possibile è quello che finora abbiamo tentato: nessuna trattativa di vertice, ma un costante allargamento della platea dei soggetti che concorrono a definire il programma dell’Unione. Per questo abbiamo detto, e non ci stanchiamo di ripetere, che al primo punto del programma c’è la partecipazione democratica. Democraticismo? No. Piena consapevolezza che, se non si produce uno scatto di questa natura, rischiamo di rimanere impigliati – anche noi – nelle maglie del tatticismo.

Infine, c’è, in stretta connessione col punto precedente, il ruolo dei movimenti. Grassi non li nomina mai, nel suo articolo: proprio come se non ci fossero. Ma non sono state proprio le nuove soggettività pacifiste e no global ad aprire la crisi dei riformisti? Non è vero che – sul punto decisivo della guerra e della pace – soltanto una grande pressione dal basso può determinare una scelta di politica internazionale fondata sulla pace e sulla non subalternità agli Usa? Se, per ottenere questo risultato, fosse utile anche uno strumento che in sé non ci piace, come le primarie, non dovremmo avere alcun scrupolo di principio. A noi, oggi, non serve ribadire solennemente la validità dei «principi», per poi magari praticare una politica di basso profilo – come capita in qualche governo locale di cui siamo parte integrante. L’innovazione della pratica comunista è anche questo: non accontentarsi più di sbandierare proposte (o “paletti”) ma applicarsi fino in fondo a spostare a sinistra l’esistente. Nel merito e nel metodo.

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La sinistra radicale deve trovare la forza per imporre le sue scelte

“IL PROBLEMA DELL’UNIONE NON E’ LA LOTTA DI LEADERSHIP MA IL PROGRAMMA”

di Claudio Grassi

Liberazione sabato 28 maggio, pagina 1

“Una relazione bellissima. Montezemolo non ha nascosto nessuno dei problemi del paese, proponendo soluzioni forti”. Così Romano Prodi. “… una sollecitazione a dare impulso a una politica economica e industriale all’altezza dei problemi. Non mancavano proposte che indicano come sia possibile tornare a far crescere l’Italia”. Così Piero Fassino.

Sarebbe meglio che parlassimo di questo, e cioè delle distanze sempre più abissali tra la componente moderata del centrosinistra e Rifondazione Comunista, anziché delle alchimie politiciste che di volta in volta emergono nel centrosinistra. Sono due anni che si perde tempo. Almeno da quando Rifondazione Comunista ha deciso – giustamente – nell’estate 2003 che bisognava prioritariamente contribuire, assieme alle altre forze del centrosinistra, alla sconfitta di Berlusconi. Si è parlato di Fed, di Gad, di Unione, di primarie, di liste e listini, non si è ancora scritta una parola comune, sulle questioni di fondo, tra sinistra alternativa e sinistra moderata. Adesso si proseguirà ancora per mesi in questa estenuante discussione. E cioè: Prodi avrà o no una sua lista? Sarà lui il candidato o spunterà Veltroni? Rispunteranno le primarie? Una pena!

La verità è che l’opposizione in questi anni ha vissuto di rendita. L’unico collante è stato l’antiberlusconismo. E le vittorie elettorali rischiano di diventare la vittoria di Pirro se queste forze poi non saranno in grado di dimostrare che oltre ad essere unite contro qualcuno sono anche capaci di unirsi per fare qualcosa.

Era inevitabile. I nodi vengono al pettine.

La componente moderata dell’Unione – che non ha sostanziali divergenze programmatiche – ha un problema di assetto organizzativo: la Fed è l’anticamera di un partito politico (come auspicano Prodi e la maggioranza Ds) o, viceversa, i partiti che vi fanno parte sono destinati a mantenere la loro autonomia (come vorrebbero Margherita e sinistra Ds)? Questa è la contesa che si è sprigionata in questi giorni e che è stata esasperata da due esigenze contrapposte.

Da un lato Rutelli e la maggioranza della Margherita, che vedono nello sfaldamento del blocco sociale che ha sostenuto Berlusconi una occasione irripetibile per intercettarne una larga parte. Operazione che verrebbe preclusa qualora si costituisse un soggetto politico ad egemonia Ds. Dall’altro lato Prodi, che non intende governare senza guidare il partito più importante che sostiene il governo stesso. Ma, come giustamente è stato detto, i partiti non si inventano. Prodi dovrà farsene una ragione e dedicarsi al ruolo che è chiamato a svolgere in qualità di candidato della coalizione: verificare se ci sono le condizioni per costruire un programma condiviso tra tutte le forze che oggi si oppongono a Berlusconi. Questo è il tema che dobbiamo porre noi e più in generale la sinistra di alternativa.

Il vero problema dell’Unione non è lo scontro tra Prodi e Rutelli: sulle grandi scelte di politica estera e politica economica sono entrambi sulla stessa lunghezza d’onda ed è quindi più che probabile che alla fine trovino l’intesa. Il vero problema dell’Unione è la distanza profonda, confermata anche l’altroieri dalle valutazioni contrapposte sulla relazione di Montezemolo, che separa la Fed da Rifondazione Comunista e, più in generale, dalla sinistra di alternativa. Basta guardare alla politica estera, altro punto decisivo per un futuro governo, e al contrasto tra le tesi espresse da D’Alema (esportare la democrazia anche con l’uso della forza) e le nostre. Come si può costruire un programma comune di governo se si dicono cose così distanti sulla politica estera e sulle grandi scelte di politica economica?

Questa la questione che con coraggio e determinazione dobbiamo porre all’Unione e –contemporaneamente – discutere in modo trasparente nel paese. L’errore più grave che potremmo fare sarebbe quello di rimuovere questo problema, dando l’impressione al popolo della sinistra che le gravi divergenze che ci hanno diviso in passato siano superate. Io non sono di questa opinione. Devo prendere atto, purtroppo, per quello che leggo, che la leadership maggioritaria dell’Unione non intende operare alcuna cesura rispetto a scelte che noi abbiamo contrastato negli anni passati.

Mi chiedo come si faccia a non cogliere, da parte di tutti, la drammaticità di questo problema.

Da tempo continuiamo a sottolineare che non c’è solo il rischio di perdere la sfida con Berlusconi, presentandosi divisi alle elezioni. C’è anche il pericolo, forse ancora più grave, di vincere e dopo poco tempo, magari di fronte alla prima legge finanziaria o alla prima crisi internazionale, di non riuscire a stare assieme.

Che fare, dunque? Prima di tutto parlare di questo e lasciare perdere altre questioni procedurali (primarie o listini elettorali) che servono solo a farci perdere tempo prezioso. Parlare di contenuti, dandoci obiettivi massimi, ma prevedendo anche alcune subordinate. Se c’è l’intesa sul programma si può entrare nel governo, altrimenti vanno valutate tutte le altre possibilità che ci consentano comunque di unire le forze per cacciare Berlusconi. Ciò che decide, come sempre, a mio parere, sono i contenuti.

Per esempio, quali proposte per uscire dalla crisi economica? Insistere ancora sul costo del lavoro, sulla flessibilità, come è stato fatto in questi ultimi 25 anni, oppure cercare di dare nuovo slancio all’economia attraverso un aumento di salari e pensioni, recuperando risorse dalle rendite e dai profitti (gli utili delle imprese in Italia sono passati, tra il 2002 e il 2004, da 8 a 30 miliardi di euro!)? Insistere ancora su liberalizzazioni e privatizzazioni oppure mettere in campo, come è stato fatto in altri paesi europei, un forte intervento pubblico capace di orientare risorse in settori ritenuti strategici e in ricerca e formazione? Continuare a privatizzare il sistema previdenziale, consegnando anche il Tfr alle assicurazioni private, oppure rilanciarlo – invertendo la tendenza delle ultime controriforme – recuperando l’evasione contributiva, separando l’assistenza dalla previdenza e garantendo quindi a tutti una pensione che consenta di vivere la vecchiaia con tranquillità? Un analogo ragionamento potremmo farlo sugli altri grandi temi: il lavoro, la scuola, l’immigrazione, il Mezzogiorno, l’informazione, la democrazia, ecc.

Un discorso a parte deve essere invece fatto per la politica estera. Qui non c’è una via di mezzo. Siccome i nostri interlocutori – D’Alema, Fassino, Rutelli, ma anche Prodi – continuano a sostenere che la guerra in Kosovo fu giusta poiché si trattò di un “intervento umanitario” è bene far presente subito a loro e al paese che anche noi non abbiamo cambiato idea e che – quindi – non esistendo “guerre umanitarie”, qualora ne venissero fatte altre la nostra presenza nell’esecutivo cesserebbe automaticamente.

Queste ed altre questioni sono da porre sul tappeto subito all’interno dell’Unione suscitando nel paese -contemporaneamente- un dibattito diffuso e coinvolgente su: quale programma, quale unità, quale alternativa a Berlusconi.

Assieme a ciò sarebbe utile, poiché darebbe maggiore forza al nostro progetto, che la sinistra di alternativa (quella, per intenderci, che sostenne il referendum per l’estensione dell’art. 18) si dotasse di una proposta programmatica comune, lasciando fuori dalla porta qualsiasi discussione su assetti organizzativi. E non sarebbe male se iniziassimo ad evidenziare con forza che molte delle contraddizioni che stanno vivendo non solo Rifondazione Comunista, ma molte altre forze politiche di questo paese, sono determinate da questo abominevole sistema elettorale maggioritario. Un buon sistema elettorale proporzionale sul modello tedesco sarebbe stato e sarebbe tuttora più idoneo per il nostro paese. Varrebbe la pena, anche su questo, rilanciare con forza un grande iniziativa politica.