Città del Messico legalizza l’aborto. Malgrado Ratzinger

Le furibonde manifestazioni della destra clericale e del Pan, il partito di governo che la rappresenta, non sono riuscite a bloccare la depenalizzazione dell’aborto, approvata martedì (con 46 voti contro 19) dalla Asemblea del Distrito Federal, l’organo legislativo della capitale.
Dopo l’entrata in vigore, il mese scorso, della civilissima «ley de sociedades de convivencia», che legalizza le unioni omosessuali – ma in realtà qualunque tipo di unione fra conviventi – Città del Messico si conferma come un’isola progressista in America latina. E si affianca a Cuba, Portorico e la Guyana, unici paesi della regione a non criminalizzare l’interruzione della gravidanza.
Mentre in un primo momento la maggioranza, rappresentata dal Prd, che governa la capitale, dal Pri, dal Panal e dalla Coalición Socialdemócrata, contemplava di aggiungere una quinta causale – «quando la maternità compromette il progetto di vita della donna» – a quelle già esistenti (stupro, malformazione del feto, pericolo di vita per la madre, inseminazione artificiale non consentita), all’ultimo si è optato per depenalizzare completamente l’aborto nelle prime 12 settimane di gravidanza, senza necessità di alcuna giustificazione.
Nelle ultime settimane, il fronte antiabortista, forte dell’appoggio del governo federale e dell’alto clero di obbedienza vaticana, aveva esacerbato i toni della polemica, lanciando un’anacronistica crociata a base di spot televisivi – con embrioni ritoccati che sorridono ai telespettatori -, argomentazioni pseudoscientifiche e manifestazioni magnificate dai media.
Ma i toni aggressivi, le minacce di scomunica, le promesse di ricorsi costituzionali e, negli ultimi giorni, una lettera di papa Ratzinger che manifestava il suo sostegno ai vescovi messicani non sono bastati a fermare l’orologio della storia in una città in cui migliaia di donne perdono ogni anno la vita per aborti clandestini.
Anzi, hanno messo in evidenza l’ipocrisia della destra al governo, che non si fa scrupolo di esacerbare la polarizzazione sociale, dopo la clamorosa frode elettorale del luglio scorso, e sembra non preoccuparsi del fatto che la metà dei messicani vive sotto la soglia di un’angosciosa povertà.
I problemi, in effetti, sono ben altri in un paese devastato dal narcotraffico, privo ormai di qualsiasi simulacro di sovranità e in crescente crisi economica. L’offensiva contro la criminalità organizzata, lanciata dal governo di Felipe Calderón alla ricerca disperata di legittimità, ha provocato finora più di 800 morti in cinque mesi e ha confermato che il primo potere nel paese non è certo quello del governo. La disoccupazione rampante – quando la principale promessa di campagna di Calderón era stata proprio la creazione di nuovi posti di lavoro – continua ad espellere più di mezzo milione di messicani all’anno verso gli Stati uniti, dove emigrano come illegali sottoponendosi a persecuzioni, sfruttamento e rischi anche mortali.
Gli unici provvedimenti visibili presi da Calderón nei suoi primi mesi di governo, dopo aver usurpato la presidenza al candidato della sinistra Andrés Manuel Lopez Obrador, sono stati un aumento di stipendio alle forze armate, utilizzate per reprimere i movimenti sociali come quello di Oaxaca, il rincaro dei generi di prima necessità – fra cui primeggia quello delle tortillas, base dell’alimentazione popolare -, una riforma fast track del sistema di previdenza sociale e pensionistico, in ottemperanza alle direttive neoliberiste degli organismi finanziari internazionali, e, ovviamente, una crescente subordinazione al governo statunitense e agli interessi delle multinazionali. La concentrazione monopolistica ha raggiunto livelli tali che il magnate Carlos Slim, attualmente interessato all’acquisto della Telecom italiana, è passato in soli due mesi dal terzo al secondo posto fra gli uomini più ricchi del mondo. Secondo la rivista Forbes, il «filantropo» messicano ha guadagnato quattro miliardi di dollari in soli 60 giorni grazie all’aumento delle sue azioni.
In questo contesto, la recente crociata antiabortista nella capitale sembra più una manovra diversiva che una reale battaglia di principi. Ultimamente, infatti, il governo sta ventilando l’abrogazione della «ley de neutralidad», che proibiva tradizionalmente al Messico di partecipare a imprese belliche fuori dai suoi confini. Grazie a questa legge, il paese, malgrado la sua subordinazione al potente vicino del Nord, era sempre riuscito a impedire la presenza di basi militari Usa sul suo territorio e a evitare la partecipazione diretta alle guerre «antiterroriste» di Washington. Finora si era limitato al ruolo di «benzinaio» dell’impero, ma, se abolirà la «ley de neutralidad», la sua partecipazione alle avventure belliche Usa diverrà inevitabile. Un regalo di Calderón al presidente Bush per l’appoggio alla sua elezione?