Cinque anni sulle note di un miserere

Forse mai come in questi primi mesi dell’anno corrente la musica italiana ha attraversato un periodo di incertezza e sfiducia. Presso le istituzioni liriche e concertistiche, i conservatori, gli istituti di studio e ricerca, insomma tutti gli ambienti presso i quali si svolgono attività che riguardano la musica, i timori per il futuro sono vivi e pressanti. Sono timori che investono i finanziamenti delle attività musicali, da quelle produttive a quelle didattiche, mortificate e rese ancor più instabili negli ultimi cinque anni dalle scelte del governo uscente; ma riguardano anche le logiche troppo episodiche e asistematiche del mondo politico quando legifera in materia musicale. Il fatto è che in Italia manca una cultura politica capace di disegnare in modo organico e competente il futuro della musica nel nostro paese, di comprenderne l’importanza nella sua storia come nella sua attualità. In altre parole, se dall’estero si guarda alla penisola come al paese del belcanto e del melodramma, ma anche del patrimonio musicale più vasto e prezioso del mondo occidentale – circa la metà delle fonti musicali di tutta Europa – nonché dei grandi autori, direttori e solisti ammirati in tutto il mondo, al di qua delle Alpi la consapevolezza di questo patrimonio – di musica scritta, ma anche di tradizione e di risorse umane – sembra venir meno proprio da parte di coloro che dovrebbero tutelarlo e incentivarlo.
I programmi delle coalizioni che si sfidano nella competizione elettorale, per quanto dissimili, non sono, a questo proposito, confortanti. In quello del centro-destra la musica non è nemmeno menzionata, e vi si legge non più che una generica «azione di valorizzazione dei beni culturali quale fondamento della nostra identità e volano dello sviluppo economico». Nel lunghissimo programma del centro-sinistra c’è spazio, invece, per articolate considerazioni su temi quali «la rinascita culturale come strategia per la crescita», il come «valorizzare il nostro patrimonio culturale», nonché «sostenere lo spettacolo dal vivo», e vi compaiono anche obiettivi più concreti, come i finanziamenti alle attività di spettacolo, incluse quelle musicali.
Il miraggio della formazione
Tuttavia la musica chiede di più. Non è sufficiente pensare a interventi mirati nel campo della musica dal vivo, dei beni musicali, della didattica. È necessario invece uno sguardo complessivo e questo per un motivo assai semplice: la musica è, in realtà, una sorta di ecosistema, in cui ogni singolo settore non è autonomo, bensì fortemente interdipentente rispetto agli altri. La produzione musicale, infatti, non sarebbe possibile se a concorrervi non intervenisse una doppia formazione; da una parte quella dei musicisti, che scrivono, suonano e cantano; e d’altra parte quella del pubblico, che acquista il biglietto per godere di un prodotto presumibilmente affine ai suoi interessi: interessi che però andrebbero formati e coltivati già nella scuola di base. Basta pensare a come lo studio di uno strumento richieda un rigore e un sacrificio distribuiti in tempi necesariamente molto lunghi, che dovrebbero essere premiati dalla valorizzazione di questi sforzi e dalla loro traduzione in possibilità di occupazione che non vedesse mortificati e lasciati inoperosi i molti talenti di cui disponiamo. È chiaro che se la produzione musicale subisce contrazioni, come è avvenuto negli ultimi anni, a soffrirne è non solo il pubblico ma i musicisti.
A fronte di necessità già sedimentate da tempo, gli ultimi cinque anni hanno visto invece una serie di scelte sconcertanti da parte del governo e del parlamento, con una legiferazione episodica e priva di strategia, che ha aggravato antiche ferite e più ancora spinto la musica verso la deriva della marginalità tanto nella cultura quanto, più in generale, nel tessuto sociale. Sono molti gli ambiti in cui la nuova legislazione è intervenuta, peggiorandola, su quella già non esaltante varata dal centro-sinistra. Gli aspetti che appaiono, tuttavia, più importanti e significativi sono quelli della didattica (di cui riferiamo nella scheda qui sotto) e dello spettacolo dal vivo. Campo, questo, in cui alla musica si è guardato come a una attività eccessivamente costosa per le tasche dello Stato, di cui era opportuno ridurre l’improduttività.
Fondazioni con scarso appeal
L’equivoco, perché di questo si tratta, nasce da lontano. Le fondazioni liriche, come è noto, sono organismi estremamente costosi che assorbono quasi la metà degli stanziamenti riservati a tutte le attività di spettacolo (il cosiddetto Fus, Fondo unico per lo spettacolo). La legge di riforma dei vecchi enti lirici promulgata dal centro-sinistra nel 1996, e che ha dato vita alle fondazioni, ha legato i finanziamenti pubblici al reperimento di fondi privati, senza tuttavia creare idonei strumenti legislativi in grado di rendere attrente la partecipazione al capitale di una fondazione lirica. E infatti nei nuovi consigli di amministrazione delle fondazioni non sono entrati come soggetti privati, se non in rari casi, aziende e imprenditori, ma banche e altri istituti semipubblici, e in qualche caso perfino la provincia di appartenenza, dunque un ente locale.
Il peso dei costi che la promozione culturale richiede è stato avvertito certamente in molti paesi europei, dove le politiche neoliberiste – a parziale imitazione di quanto avviene negli Stati Uniti – hanno ridotto il contributo statale, introducendo però dei sistemi di detassazione tali da rendere conveniente per i soggetti privati il sostegno ai teatri lirici. Da un governo di orientamento liberista ci si sarebbe dovuti aspettare il varo di provvedimenti analoghi, in modo che a una diminuzione dell’appoggio statale corrispondesse un appoggio effettivo, ossia consistente, dei privati.
Così però non è stato; anzi i vari disegni di legge in materia sono rimasti lettera morta, abbandonati nei cassetti delle commissioni parlamentari, essendo ritenuti evidentemente non urgenti o ininteressanti. Tuttavia la diminuzione dell’intervento statale c’è stata ugualmente; le varie leggi finanziarie degli ultimi cinque anni hanno progressivamente eroso le cifre del Fondo unico per lo spettacolo, portandole a una riduzione significativa e allarmante del quaranta per cento. Il contributo dello Stato per le fondazioni liriche è dunque crollato progressivamente, passando dai 242 milioni di euro del 2003 ai 180 del 2006. Il problema è che, in un teatro lirico, le maestranze sono indispensabili e, di conseguenza, i costi fissi sono altissimi, tanto da raggiungere persino il 70 per cento del bilancio. La riduzione dei finanziamenti, dunque, è andata a incidere direttamente sulle produzioni, costringendo i teatri a levare dal cartellone una quantità notevole di titoli già programmati. Tanto per dirne una, il Maggio Musicale Fiorentino, il più antico e prestigioso dei festival italiani, sarà in grado quest’anno di allestire un unico titolo, Falstaff di Verdi, avendone cancellati altri tre. Mancheranno Salome di Strauss diretta da Daniele Gatti, e Il naso di Sostakovic diretto da Valerij Gergev; il festival abdica così alla sua sua natura, tanto da legittimare la domanda su cosa resti del suo significato originario. Paradossalmente, la vecchia accusa rivolta ai teatri lirici, di essere dei carrozzoni improduttivi, si è inverata grazie alla politica del centro-destra, i cui provvedimenti hanno avuto un carattere nel quale non si può fare a meno di leggere un intento punitivo. Certo, l’ultimo anno è stato segnato, in particolare, dalle vicende della Scala, che hanno funzionato, semmai ce ne fosse stato bisogno, da rilevatore speciale della incapacità di comprendere e gestire situazioni complesse. Tutti ricorderete come la fondazione milanese – nel cui consiglio di amministrazione sedevano personaggi del mondo dell’impresa come Confalonieri e Tronchetti-Provera – sia stata protagonista di una faida interna fra il sovrintendente, Carlo Fontana, e il direttore musicale, Riccardo Muti. La scelta del sindaco di identificare l’immagine del teatro con quella del direttore musicale, il cui prestigio attraeva capitali privati inclusi quelli di Mediaset, ha sopravanzato qualsiasi altra considerazione sulla politica culturale del teatro; alla fine, tutti i protagonisti sono rimasti travolti. Il teatro-simbolo della lirica in Italia ha dato, di fronte al mondo, il peggiore dei suoi spettacoli, mostrando quanto profonda fosse l’inadeguatezza del suo gruppo dirigente. È una vicenda emblematica, che lancia lunghe ombre sulla capacità degli enti locali nel gestire le istituzioni musicali. Alle accuse di sprechi delle risorse non è corrisposta nessuna riforma strutturale, ad esempio relativa alle piante organiche dei teatri, dunque a una ridefinizione del personale che ci lavora. Al contrario, per tamponare la crisi dei teatri lirici, ed «assicurare efficaci economie di gestione», parlamento e ministero dei beni culturali hanno varato, spesso a margine di provvedimenti di tutt’altra natura (decreto «ommibus»), leggine e decretini, veri pannicelli caldi per far scendere la febbre al malato; vi si leggono ovvietà, come risparmiare sugli allestimenti e calmierare i cachet. I risultati sono paradossali. Il Teatro Regio di Torino, per l’inaugurazione della prossima stagione, ha invitato Luca Ronconi a mettere in scena Turandot di Puccini, con una singolare richiesta: quella di realizzare uno spettacolo senza scene. Di qui alla forma di concerto il passo è breve.
Non tutti tirano la cinghia
Ovvio che il risparmio si sia tradotto in un calo drastico della qualità degli spettacoli. L’Opera di Roma, ad esempio, è stata indicata come un modello per il controllo operato sul bilancio; tuttavia i risultati offerti al pubblico sono stati sconcertanti, almeno sotto il profilo scenico. Si è arrivati a noleggiare un allestimento di Rigoletto da un teatro all’aperto, lo Sferisterio di Macerata, e non c’è da stupirsi che lo spettacolo maceratese, già in partenza non memorabile, esaltasse tutti i propri difetti una volta trasferito su un palcoscenico del tutto diverso da quello per il quale era stato pensato. In questa situazione di vacche magre anzi magrissime, navigano anche altre curiose iniziative del centro destra; come la creazione dal nulla di una quattordicesima fondazione lirica, quella del Petruzzelli di Bari, chiamata a dividere con gli altri teatri la medesima cifra destinata alla lirica. E converrà sorvolare sul fatto che la fondazione sia priva di sede e di adeguate strutture. Ma quel che è più singolare, nel panorama della gestione musicale da parte della maggioranza uscente è che, nonostante tutti i disastri che abbiamo elencato la cifra complessiva destinata alle attività musicali non si è poi assottigliata. Infatti, il ministro pro tempore dei beni culturali ha avuto a disposizione alcuni fondi paralleli, come quelli provenienti dagli stanziamenti previsti per le infrastrutture e destinati a finanziare dal 2004 la nuova società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo (Arcus). Capita così che, mentre tutti i teatri tirano la cinghia, la fondazione «Parma capitale della musica» venga gratificata di 3 milioni e mezzo di euro per coordinare e incentivare nella città le attività musicali, secondo progetti piuttosto nebulosi. È l’ennesimo segnodi una politica in cui entrano palesemente interessi trasversali e non sempre adamantini. D’altra parte, anche la ripartizione dei fondi per le attività musicali è stata oggetto di molti ricorsi e altrettante proteste. Nella Commissione musica, organo consultivo del ministero incaricato di individuare i soggetti a cui destinare i fondi del Fus sono stati chiamati musicisti legati al centro-destra e non proprio di primissimo piano, talvolta in sospetto di conflitto d’interessi (ovvero molto vicini alle istituzioni a cui erogavano i fondi), e tenuti a esaminare innumerevoli domande di finanziamento in poche sedute, dunque probabilmente a ratificare decisioni già prese dal ministero.
Non c’è da stupirsi se istituzioni come l’Orchestra Verdi di Milano abbiano aperto un contenzioso per un drastico taglio dei fondi, e altre assai meno celebri e meritevoli abbiano goduto di sensibili aumenti. Né risulta casuale il fatto che, dopo molti anni, uno dei direttori italiani più stimati, Riccardo Chailly, abbia abbandonato l’Orchestra Verdi, nonostante i lusinghieri successi ottenuti. Si allunga di altri nomi, tra cui quelli di Roberto Abbado e Fabio Luisi, la lista dei direttori italiani che non trovano le condizioni idonee per stabilire rapporti continuativi con le nostre istituzioni. Il fatto è che il lascito di questi cinque anni ha del tutto messo in ginocchio le attività musicali italiane, avviate già da tempo verso un declino inaccettabile a fronte della vitalità di molti altri paesi europei.
Cosa aspettarci di qui al futuro
Rimane da domandarsi come dovrebbe muoversi un augurabile governo di centro-sinistra per risanare i danni. Il programma dell’Unione è, a questo proposito, chiaro sulla necessità di reintegrare il Fus al livello del 2001; vi si legge anche l’intenzione di «attuare norme per la defiscalizzazione totale degli investimenti (…) nelle attività di spettacolo dal vivo»; vale a dire quelle misure liberiste che il centro-destra non ha saputo attuare. Non è un obiettivo esaltante, e occorre verificare come esso verrà bilanciato con i finanziamenti pubblici e con una riorganizzazione interna dei teatri. L’impressione è però che guardare alla musica considerando prioritario e quasi ossessivo il problema dei finanziamenti non aiuti a uscire dalla crisi. Di fatto, il modello manageriale delle fondazioni ha portato a un complessivo ridimensionamento della figura del direttore artistico e a una minor rilievo delle personalità chiamate a ricoprirla: anche questo ha concorso all’impoverimento e alla banalizzazione dei cartelloni. Rimane aperta la necessità di considerare come i problemi della musica dal vivo siano legati non solo a quelli dello spettacolo in genere, ma dei circuiti della didattica musicale e della scuola di base, nonché della ricerca musicologica, della conservazione del patrimonio e perfino dell’industria audiovisiva. Serve insomma un coordinamento, che armonizzi competenze divise fra molti ministeri. E, a monte, occorre una nuova disponibilità culturale, che individui nella musica un fattore irrinunciabile della nostra vita civile.