Cino Moscatelli, coraggio e umanità di un partigiano

Gli hanno dedicato poesie e canzoni, per lui hanno modificato “Bandiera rossa” (Bandiera rossa la trionferà, evviva Moscatelli e la libertà…), era il partigiano leggendario, l’eroe popolare con le armi in pugno; i suoi funerali immensi – con l’allora presidente Pertini, Berlinguer e tutto il Comitato centrale del Pci dietro il feretro – furono veri funerali di Stato, in un mare di bandiere rosse, di vessilli della guerra di Liberazione, di emblemi della Resistenza. E soprattutto con una folla sterminata di popolo, la gente delle sue valli, e i compagni, i semplici cittadini accorsi da ogni parte d’Italia.
Il cappello d’alpino-ribelle deposto sulla bara ricoperta dal drappo delle sue gloriose brigate garibaldine, l’orazione funebre di Boldrini (“Permettetemi di affermare con commozione ed orgoglio che Cino è uno dei nostri, un comunista, un patriota che ci lascia”), l”addio di Eraldo Gastone (“Ciro”, l’altro nome mitico della guerriglia piemontese, amico fraterno e compagno di tante battaglie), la commozione palpabile di quell’ultimo saluto: giorno indimenticabile in morte di un partigiano.
Cino Moscatelli aveva nemmeno 73 anni quando è scomparso il 31 ottobre 1981, venti anni fa: per tutta la sua vita è rimasto “uno dei nostri”, semplicemente, umanamente, esemplarmente; lo diciamo ancora oggi, nella consapevolezza che Moscatelli – la sua figura, la sua vita – non ha bisogno di nessuna retorica, di nessuna esaltazione. Lui non ne ha bisogno, non ne ha mai avuto bisogno.
Che storia, la sua. Operaio, intellettuale (allievo di Togliatti), dirigente politico, direttore di giornali, comandante partigiano, deputato alla Costituente, sottosegretario in un gabinetto De Gasperi, membro del Comitato centrale Pci, primo sindaco di Novara dopo la Liberazione, fondatore dell’Istituto per la storia della Resistenza della Valsesia, autore di libri: una vita straordinaria, Umanità e leggenda si intitola, non certo a fini celebrativi, uno degli studi a lui dedicati.
Cino nasce a Novara il 3 febbraio 1908, da una famiglia operaia (il padre è ferroviere), quarto di sette figli, a scuola è bravo, ma dopo la ‘sesta’ deve lasciare la scuola e mettersi a lavorare: apprendista tornitore in una fabbrica del posto. Di sera segue un corso professionale, è praticamente un bambino quando comincia a frequentare il Circolo dei ferrovieri e la Camera del lavoro. Ha appena 14 anni quando, nel settembre del ‘22, partecipa alla ‘battaglia di Novara’: è uno dei ‘fanciulli proletari’ che a sassate difendono la Camera del lavoro dal primo assalto fascista.
Come un destino segnato. Organizza i primi scioperi, già braccato deve lasciare Novara e trovare lavoro segretamente a Milano; nel 1925 è iscritto alla federazione giovanile comunista; nel ‘27, sotto la guida di Momo Li Causi (che allora si faceva chiamare Cian So Lin) organizza nel Novarese il grande sciopero delle mondine.
Fa parte ormai dell’apparato clandestino comunista; nello stesso anno è in Svizzera, a Passwag, dove partecipa ai corsi di formazione diretti da Togliatti e Longo; poi è a Berlino, ancora corsi presso la ‘Karl Liebknecht’ del Pc tedesco; quindi a Mosca, dove resta fino al 1930, quando emigra in Francia.
E’ ormai membro del Centro estero del Pci, si occupa di giornali clandestini che si chiamano Avanguardia, Il fanciullo proletario, Il galletto rosso; sul finire dello stesso anno è rinviato in Italia, lavoro clandestino in Emilia Romagna.
‘Cade’ – come si diceva allora – quasi subito; pochi mesi dopo il rientro è infatti catturato: torturato e deferito al tribunale speciale, è condannato a 16 anni per “ricostituzione del Pci, appartenenza allo stesso, propaganda e omessa denuncia d’armi”.
Ha solo 23 anni; conosce gli orrori delle prigioni di Volterra, la cella di isolamento, gli scioperi della fame e i maltrattamenti, ma anche “l’università del carcere”. Nel penitenziario di Civitavecchia – dove subisce 6 mesi di isolamento per i messaggi scritti sulle cartine delle sigarette (i famosi ‘tarocchini’), ed è messo a pane ed acqua per aver teso una mano a Gramsci attraverso un’inferriata – è in cella con Scoccimarro, Secchia, Terracini, Li Causi. “L’uomo che nel 1935 esce dal carcere (per effetto della amnistia del ‘decennale’) è un rivoluzionario agguerrito e addestrato, non più un ragazzo di periferia temerario e senza istruzione – dice Enzo Barbano, nella biografia scritta subito dopo la morte.
Considerato ‘bruciato’, dal ‘35 al ‘43 sono i suoi anni più difficili, praticamente impossibile per lui mantenere i rapporti con l’organizzazione clandestina del partito; ma la sua militanza è instancabile, in quelle valli piemontesi dove ha amici e compagni e dove riesce persino a impiantare una attività di lavoro in proprio. Poi la guerra e la catastrofe; l’8 settembre non lo trova impreparato.
E comincia anche la sua leggenda. E’ tra i primi organizzatori della Resistenza in Valsesia, commissario politico del Raggruppamento Divisioni Garibaldi della Valsesia-Cuvio-Ossola-Verbano: alle dirette dipendenze del Comando generale, che ha sede a Milano, comprende quattro formazioni (Fratelli Varalli, Redi, Paietta, Mario Flaim) con una forza complessiva di oltre 3.000 uomini (e stampa anche un giornale La Stella Alpina, diretta proprio da Moscatelli).
E’ un comandante tra i più preparati, ha letto Clausewitz, Engels e Lenin sulla guerra di bande e soprattutto ha dietro di sé l’organizzazione comunista. E’ da subito una prova di eccezionale durezza. Si trova infatti a lottare contro avversari aggressivi, armatissimi, feroci. Il binomio ‘Cino e Ciro’, cioè il vertice del comando in Valsesia, tuttavia non fu mai discusso (altrove non fu lo stesso); e più che una guerriglia la sua dovette essere una vera guerra guerreggiata.
A capo di una forza armata di notevole dimensione, efficienza ed organizzazione, “applica sempre una tattica accorta e prudente. Rifuggiva dalla temerarietà e dallo spreco di vite umane. I terribili episodi del rastrellamento della valle del Roj (i difficili sganciamenti di fronte a un avversario enormemente superiore per numero e mezzi) sono oggi, da molti, considerati come esemplari operazioni di guerriglia”.
Racconta Boldrini: “Le sue prime battaglie sono dell’ottobre ‘43 con l’occupazione di Omegna insieme alla formazione del capitano Beltrami, che cadrà nella battaglia di Megolo insieme a Gaspare Paietta e tanti altri; poi la resistenza accanita contro l’offensiva tedesca che tenta di annientare i partigiani; infine il grande combattimento fino alla liberazione della Valsesia e delle valli, con la guerriglia che si estende anche in pianura”. E’ il momento nel quale i nazifascisti battono in ritirata, l’intera zona è liberata; è il settembre ‘44, nasce la Repubblica dell’Ossola, “un breve, ma grande episodio, che appartiene alla storia della Patria”.
L’inverno ‘44-‘45 è tremendo, l’intera zona liberata è teatro della più massiccia controffensiva tedesca, sono giorni di scontri continui e di battaglie sanguinose (Romagnano, Arona, Fara, Borgosesia). “Legò il suo nome a questi due anni di lotte terribili – scrive sempre Enzo Barbano – Fu quello un periodo cruento e tragico di cui questa valle non era mai stata altre volte testimone. Settecento morti. Grandi masse di armati in un’autentica zona di operazioni militari”.
Poi l’insurrezione della Valsesia, la liberazione di Novara, la lotta per Milano libera, la vittoria.
Fu un uomo di grande coraggio, era incapace di rancori e vendette. Era anche “un maestro, nel senso storico della parola: ricco di idee, esperienze, sapeva ascoltare, valutare e suggerire, mai imporre”. Un grande comandante militare, un dirigente politico, una personalità di livello internazionale, un eroe della Resistenza: ma fu l’umanità una delle sue doti più grandi.
“Cino, un comunista come tanti di noi – ha detto Boldrini – era al tempo stesso qualcosa di straordinario, per il suo innato altruismo, per il modo severo ma anche scanzonato con cui affrontava le difficoltà della vita e infondeva fiducia agli altri. E chi ha avuto la fortunosa avventura di essergli accanto non può che testimoniare il suo impegno, la sua umanità di sempre”.
Addio indimenticabile Cino, uno dei “nostri”.