CINA – NATO – USA

La guerra della NATO contro la Jugoslavia è stata considerata a Pechino come attacco ad un paese sovrano e minaccioso monito degli Stati Uniti.

Il problema del rapporto della NATO con la Cina si divide in due: da un lato vi è il rapporto vero e proprio della NATO con la Cina, dall’altro vi è quello degli Stati Uniti e della loro concezione strategica con la Cina. I due fenomeni sono connessi ma non coincidenti.

Il rapporto della NATO con la Cina è relativamente recente e, comunque, improprio. Nessuna fantasia può estendere l’Atlantico, il suo significato strategico e la cultura che si è sviluppata sulle sue rive fino alla Cina. Come è noto il testo del patto atlantico copre soltanto i territori europei degli Stati membri. Quella clausola fu molto importante quando la Francia era impegnata nella guerra coloniale in Vietnam e poi in Algeria: anche ad essa si dovette se nessun soldato italiano fu mai chiamato a combattere in quelle infami guerre e se, neppure, le basi su territorio italiano furono chiamate a svolgere un ruolo di supporto in Algeria. La guerra del 1999 contro la Jugoslavia ha modificato questa logica in quanto è stata una guerra ideologica, che ha messo in discussione non la sicurezza degli stati membri della NATO sul loro territorio metropolitano, bensì i principi ideologici che ne contraddistinguono la cultura politica. La guerra è stata giustificata da una decisione comune di intervenire, in quanto alleanza atlantica, sul territorio di uno stato che non è e non è mai stato membro dell’alleanza e che non aveva invaso alcuno stato straniero, membro o no della NATO. In questo senso si è trattato di un’operazione del tutto diversa dalla guerra contro l’Iraq che aveva invaso il Kuwait e che per questo era stato condannato dalle Nazioni Unite: e infatti quella guerra contro l’Iraq fu patrocinata non dalla NATO, bensì dalle Nazioni Unite con il consenso o almeno l’astensione di Russia e Cina. Dicendo ciò non si vuole dare giustificazione alla guerra contro l’Iraq, ma soltanto dire che rientrava in un’altra logica: un intervento collettivo dell’Organizzazione mondiale deliberato a maggioranza e attuato in comune da suoi membri.

Nel caso della guerra contro la Jugoslavia, invece, la NATO, cioè un’organizzazione non mondiale ma limitata ai suoi membri, ha deliberato un intervento per motivi di ordine politico e morale (l’inaccettabilità della “pulizia etnica”), senza che le Nazioni Unite avessero deliberato in proposito e neppure fossero state investite del problema. E non lo erano state perché, visti i problemi etnici che la maggior parte dei membri dell’Onu si ritrovano, l’Organizzazione si sarebbe ben guardata dal sanzionare un intervento. Si può discutere se sia ora che le Nazioni Unite si diano strumenti per garantire l’osservanza di alcuni diritti umani, che potrebbero anche essere universalmente condivisi, al di là delle differenze di cultura: è probabile che ciò sarebbe giusto. Nessuno può accettare quanto è avvenuto in molti paesi di quello che un tempo si chiamava con speranza Terzo Mondo, per difendere interessi vari delle grandi potenze, i loro canali commerciali e la loro possibilità di vendere armi. Ma il problema esige una vera convergenza delle decisioni di una maggioranza, o comunque di un insieme di paesi che comprenda almeno i più grandi, stabili, organizzati stati non usciti dalla cultura dei bianchi–cristiani dell’Europa e degli Stati Uniti. Il “fare muro” contro l’elaborazione di regole comuni per l’umanità, non aiuta i paesi più poveri, più esposti a ricatti e più fratturati al loro interno a difendere la sopravvivenza della loro popolazione, soprattutto dei più deboli. In Rwanda, in Sudan o in Sierra Leone è avvenuto e avviene ben di peggio che in Kosovo, ma nessuno ha fatto nulla.

Invece in Jugoslavia no, la NATO – e solo essa – ha deciso di intraprendere una serie di operazioni militari punitive adducendo la necessità di difendere i kosovari dalla “pulizia etnica” dei serbi: come poi stessero le cose si è visto nel prosieguo di tempo, quando è stato possibile sceverare la “pulizia etnica” precedente i bombardamenti e quella avvenuta nel corso delle operazioni e quando è apparso il problema della “pulizia etnica” contro i serbi. Del resto la natura delle mistificazioni che accompagnano queste vicende non ha bisogno di molte dimostrazioni dopo che si è visto come la gran campagna di solidarietà degli occidentali nei confronti del “popolo afghano” (del quale è molto dubbia un’esistenza unitaria) aggredito dai sovietici, abbia finito per mettere al potere i Talebani e non sia neppure riuscita ad assicurare la pace.

L’attacco della NATO alla Jugoslavia e la sua giustificazione sono stati letti – e non poteva essere diversamente – dai dirigenti cinesi come una prova generale per predisporre, nel tempo, un attacco alla Cina. Poi è venuta la vicenda del bombardamento dell’ambasciata che nessun asiatico di mente normale può pensare sia stato compiuto per errore, in vista del passato. Ma questa è questione secondaria. Il punto principale era proprio la logica dell’attacco da parte di un certo numero di potenze alleate tra loro, giustificato dal comportamento tenuto da un paese su problemi interni.

Un’identità multietnica

I cinesi non possono dimenticare che nel 1900 le potenze europee si imbarcarono in un’operazione collettiva di repressione militare per reprimere il movimento dei ribelli I Ho Tuan (o Boxer), che avevano ucciso l’ambasciatore germanico: quella vicenda è una delle più radicate nella mente dei cinesi, mai perdonata, non perdonabile. L’analogia con l’attacco alla Repubblica jugoslava era evidente, anzi nel caso dei Boxer si poteva almeno addurre una violazione del diritto internazionale. Ma non basta: il problema è quello della “pulizia etnica” e del diritto di uno Stato di risolvere, anche con la repressione, una ribellione etnica o problemi etnici. Su questo specifico punto i cinesi hanno visto l’attacco alla Jugoslavia come il tentativo specifico di creare un precedente per un attacco alla Cina, in senso specifico e mirato. I politici, la stampa, l’opinione pubblica dell’Occidente hanno fatto il possibile per confermare i cinesi nei loro timori scatenando ancora una volta – con continui, ma impropri riferimenti al Kosovo – la grande cagnara sul Tibet.

Come è noto, la Cina è un paese “multietnico”. La maggioranza dei cinesi (oltre il 90%), i cosiddetti cinesi han appartengono a una cultura (non una “razza”) comune, formatasi nel corso dei secoli per assimilazione di gruppi umani diversi in base a pratiche materiali di lavoro e di vita condivise e in base a una comune cultura politica: lo Stato cinese è stato protagonista di quel grande processo di assimilazione che ha formato il popolo più numeroso della terra e che tuttora è in corso. Han si diventa, in genere è conveniente diventarlo: il processo non è avvenuto, in genere, per coazione, ma per incentivazione materiale, in quanto gli han vivevano meglio degli altri. Tra le genti non han, la maggioranza vive frammista agli han in ambienti comparabili. Vi sono però popolazioni nomadi, nella fascia delle steppe, delle montagne e dei deserti che circondano la Cina a Nord e a Ovest, che differiscono sostanzialmente dagli han per modo di vivere e di lavorare e che sono contraddistinte da una cultura materiale o spirituale connessa all’ambiente. I territori in cui sono insediate queste genti sono stati conquistati dallo Stato cinese (in parte ancora nel II secolo a. C.) e per tutta la storia della Cina si è sviluppato un rapporto organico tra gli han e il loro Stato e questi nomadi: gli uni e gli altri facevano parte dello “Stato del Centro”, il nome della Cina in cinese, un concetto politico, non razziale. La Cina ha avuto imperatori turchi, mongoli, tungusi: nulla di cui stupirsi per un cinese. Bastava che scrivessero in caratteri e governassero da han.

Mettere in discussione questo meccanismo significa negare l’esistenza della Cina, che è – appunto – “Stato del Centro”: sceverare le etnie di luogo in luogo e dividerle sarebbe assurdo, come sceverare il Dna degli italiani che hanno preso tutte le genti venute da noi. Nel mondo di oggi è molto importante riaffermare il principio che chi viene perché ritiene di andare a star meglio deve essere accolto e, in un paio di generazioni, fuso e assimilato con gli altri. Questa è stata la caratteristica della cultura italiana e soprattutto di quella cinese: un grande fattore di superiorità. Invece, nel loro attacco alla Cina, le potenze imperialistiche hanno sempre fatto leva sulle diversità etniche o culturali per spartire il grande paese o creargli problemi.

Ciò ha riguardato in particolare due casi, quello mongolo e quello tibetano. Con i mongoli la Cina ha avuto un rapporto intrinseco per tutta la sua storia; non si era mai discusso il fatto che i mongoli inseriti entro i confini dell’Impero ne facessero parte. L’Impero zarista, tuttavia, attuò una politica di penetrazione e al momento dell’avvento della Repubblica in Cina nel 1911 fece proclamare l’indipendenza di quella che fu definita “Mongolia esterna” (anche se la maggior parte dei mongoli rimaneva in Cina e oggi costituisce la regione autonoma mongola, vicinissima a Pechino e abitata da una maggioranza han). Nel 1924 una rivoluzione sostenuta dai bolscevichi portò alla creazione della Repubblica popolare mongola, che il governo di Chiang Kai–shek, su pressione di Stalin, riconobbe nel 1945, cosicché anche la Repubblica popolare cinese dopo il 1949 ne ha riconosciuto l’indipendenza: si tratta di un territorio dell’impero staccatosi per processo legittimo.

Analogo, ma diverso nella conclusione, il caso tibetano: anche i tibetani ebbero lunghi – e in genere molto ostili – rapporti con l’Impero cinese e nel corso dei secoli scesero in folte schiere dal loro inospitale altipiano per insediarsi nelle regioni cinesi a ridosso delle montagne, dove rimangono, pur essendo numericamente una minoranza rispetto agli han e ad altre genti. Il Tibet vero e proprio, il vasto altipiano, tutto al di sopra dei 4–5 mila metri, se si esclude la valle di Lhasa, fu conquistato dall’Impero cinese nel 1721 e nel 1751 inserito nell’amministrazione cinese in modo regolare, attraverso la presenza di funzionari, anche se tra i Dalai Lama e gli imperatori esisteva anche un rapporto personale di reciproco legame. Qualsiasi governo cinese, quello imperiale, quello del Guomindang e quello della Repubblica popolare hanno sempre considerato il Tibet un territorio appartenente allo Stato cinese. Nessun paese al mondo oggi riconosce uno status di indipendenza al Tibet e neppure il Dalai Lama la rivendica. Su questo non possono sussistere dubbi.

Al momento dello sfacelo del potere cinese all’inizio del secolo XX, tuttavia, il potere britannico in India cercò di penetrare in Tibet e di stabilire rapporti con l’aristocrazia schiavista e monastica che lo controllava. Gli inglesi cercarono anche di attribuire uno status internazionale alle autorità tibetane, invitandole nel 1913 alla conferenza di Simla, dove, nonostante le proteste della delegazione dell’Impero cinese, si fecero cedere i territori che tuttora sono contestati tra India e Cina. Neppure gli inglesi, però, riuscirono a portare avanti il tentativo e durante la seconda guerra mondiale chiedevano regolarmente al governo di Chiang Kaishek il permesso di sorvolo sul Tibet per gli aerei che portavano aiuti. Poi vennero la rivoluzione e la proclamazione della Repubblica popolare cinese: l’ingresso in Tibet dell’esercito rivoluzionario era soltanto la conclusione di una guerra civile e non la conquista di un territorio esterno alla Cina, come va ripetendo da anni la campagna tenace e subdola condotta in occidente con gran rinforzo di attori di Holliwood e patiti delle nuove religioni esoteriche.

Nel 1951, la Repubblica popolare cinese concluse un accordo con le autorità tibetane, politiche e religiose, e istituì un regime di autonomia, gestito con il consenso del Dalai Lama. Però nel 1956–57, in un momento di massima tensione tra Stati Uniti e Cina popolare, la Cia sostenne una rivolta dei tibetani insediati nella regione cinese del Sichuan. A seguito di una serie di manovre (c’è di buono che la Cia deve rendere conto delle sue spese al contribuente americano e così, ogni tanto, si sa qualcosa) e probabilmente con qualche complicità dei sovietici ormai ostili a Mao e alla Cina, i rivoltosi si trasferirono a Lhasa, chiesero e ottennero il consenso del Dalai Lama. I cinesi repressero la rivolta e il Dalai Lama, con gran parte della classe dirigente tibetana, si trasferì in India, a Dharamsala, dove ha costituito un governo tibetano in esilio, finora non riconosciuto da alcun paese.

Da allora è iniziata nel mondo intero un’intensa campagna di delegittimazione morale e storica del potere cinese sul Tibet, penetrata largamente nell’opinione pubblica occidentale, benché non abbia mai portato a prese di posizioni giuridiche dei governi. Per parte loro, i governanti cinesi sottoposero dopo il 1959 la società tibetana a profonde trasformazioni cercando di allevarsi una classe dirigente alternativa che doveva tutto alla rivoluzione. Furono soprattutto questi giovani “giacobini” tibetani che durante la rivoluzione culturale distrussero templi e simboli della civiltà tibetana, dando ulteriore fiato alla campagna anticinese. Dopo la morte di Mao, è stato ripristinato il regime di autonomia ed è stato dato maggiore spazio alla popolazione tibetana, anche se è continuata, in alcune fasi con molta intensità, la repressione contro le spinte indipendentistiche e i movimenti separatistici. Oggi il Tibet, che resta molto povero, sta trasformandosi: i pastori nomadi sparsi ricevono qualche piccola assistenza dall’esercito popolare cinese che continua a gestire un minimo di strutture sanitarie, mentre la valle di Lhasa sta diventando un’attrazione turistica e molti tibetani trovano conveniente accettare la politica tradizionale dei cinesi verso le minoranze: comprarne il consenso con un minimo di benessere.

Questa lunga diversione pare irrilevante per il rapporto Cina–NATO, ma non lo è affatto: i dirigenti cinesi, tallonati in ogni loro visita dalla campagna per l’indipendenza del Tibet, hanno fatto un ragionamento logico. Non ci vorrebbe nulla per gli americani a reclutare un Uck tibetano a Dharamsala e a pagare altri tibetani per sostenerlo sull’altopiano, costringendo le autorità cinesi a una repressione etnica, che oggi non c’è. Se mai si tratta di repressione politica dei settori monastici favorevoli all’indipendenza, ma in nessun caso sono stati segnalati episodi di repressione nei confronti di villaggi o di gruppi di pastori. Basta volere e una guerra etnica si scatena. Per questo, la logica della guerra della NATO alla Jugoslavia è apparsa ai dirigenti cinesi in modo chiarissimo come la costituzione di un precedente per l’attacco alla Cina. Tanto più che i giovani tibetani esiliati, in concomitanza con la guerra in Kosovo, chiedevano armi e sostegno all’Occidente e compirono anche un misterioso attentato contro il Dalai Lama, che è molto più prudente e probabilmente mira a un compromesso con la Cina. Poi le vicende del Kosovo hanno ridimensionato la realtà delle motivazioni morali dell’intervento della NATO e i governanti cinesi hanno riportato il discorso con l’Occidente sul piano degli scambi economici e delle condizioni commerciali.

Ma non hanno ceduto in nulla sul problema della sovranità nazionale quale principio base del diritto internazionale. Come è noto, durante la guerra alla Repubblica jugoslava, i nostri zelanti governanti sono riusciti a trovare una minoranza di giuristi internazionalisti che, con l’opposizione dei loro più esperti colleghi, sostenevano la relatività del principio della sovranità e promuovevano la nascita di “nuovi principi” del diritto internazionale che consentissero appunto interventi esterni per ricondurre paesi per qualche motivo ritenuti “colpevoli” ad un comportamento ritenuto corretto: non dimentichiamo che negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno denunciato l’esistenza di “rogue states”, di “stati mascalzoni”, un pericolosissimo concetto giuridico. I paesi che hanno riconquistato la pienezza della loro sovranità dopo la lunga notte delle ipoteche imperialiste o sono divenuti sovrani dopo la colonizzazione, non a caso difendono il principio della sovranità nazionale quale tutela dei loro diritti. E prima tra tutti la Cina.

E qui il discorso sul rapporto Cina–NATO si può considerare concluso. Ma vi è l’altro aspetto del rapporto della Cina con gli Stati Uniti. Come è noto, la strategia “storica” degli Stati Uniti ha diviso il settore “atlantico” fondato sul rapporto con le grandi società capitalistiche omologhe dell’Europa, da quello del Pacifico. Noi europei non comprendiamo facilmente il peso che il Pacifico esercita sul mondo esistenziale, ancor prima che sulla cultura politica, degli americani. L’Atlantico è condiviso, il Pacifico è loro: per affermarlo hanno combattuto e vinto la dura guerra contro il Giappone. Per molti europei l’Asia orientale resta ancora, spesso, “Estremo Oriente”, il punto terminale di un cammino che parte dall’Europa. Per gli Stati Uniti è lo “Western Pacific Rim”, il “bordo occidentale del Pacifico”, sul quale si ritengono autorizzati ad esercitare un’egemonia in nome del fatto che possiedono il “bordo orientale”. Il controllo del “Western Pacific Rim” è stato esercitato dagli Stati Uniti in proprio, senza nessuna condivisione di responsabilità con gli alleati atlantici, che anzi sono stati volutamente emarginati ed espulsi da questo settore strategico.

Cina e Stati Uniti d’America

Non è senza significato il ricordare che la colonna portante della strategia statunitense in Asia orientale dopo la vittoria dei comunisti in Cina è stata l’alleanza bilaterale tra Stati Uniti e Giappone: nonostante certe affinità della società giapponese con quelle capitalistiche consolidate dell’Europa, il Giappone non ha mai fatto parte, né avrebbe potuto, dell’Alleanza atlantica; così come la Corea meridionale, pur entrata nel 1997 nell’Ocde. E in entrambi i casi, si tratta di paesi stabili che non presenterebbero particolari pericoli. Ma gli Stati Uniti intendono gestire i rapporti in proprio e da soli. In proprio e da soli per anni mantennero l’assedio alla Cina attraverso la VII Flotta che pattugliava lo stretto di Taiwan. Per anni imposero la politica di non riconoscimento alla Repubblica popolare cinese ai loro alleati europei che invece vedevano vantaggi economici e politici nel rapporto con Pechino; per anni manovrarono con pesanti ricatti perché i paesi europei si allineassero sul rifiuto alla presenza della delegazione della Repubblica popolare cinese alle Nazioni Unite. Da soli si impegnarono nella guerra in Vietnam, nonostante le offerte di mediazione di de Gaulle. Tutte cose che gli alleati atlantici avrebbero evitato volentieri.

Gli Stati Uniti si sono trovati da soli anche a operare la revisione di quella strategia. Non avvennero su pressione dei governati europei, ma sotto la spinta della vittoria dei vietnamiti e con la speranza di poter usare la Cina in Asia contro l’Urss, le visite di Kissinger e poi di Nixon che modificarono il rapporto tra Stati Uniti e Cina nel 1971 e nel 1972. Lo stesso si dica per lo stabilimento dei rapporti diplomatici dopo il 1978, che – in vista della ferma richiesta da parte della Repubblica popolare della riaffermazione, in ogni riconoscimento, del principio per cui “esiste una e una sola Cina e Taiwan è parte di essa” – ha aperto la spinosa questione dei rapporti degli Stati Uniti con Taiwan, sanciti dall’ambiguo Taiwan Relations Act, che lascia sussistere la fornitura di armi statunitensi all’isola, nonostante la decadenza del patto bilaterale all’atto dello stabilimento dei rapporti tra Washington e Pechino. Tutte le vicende connesse a questi problemi sono state trattate dagli Stati Uniti direttamente con le controparti asiatiche. Impensabili interferenze europee.

Negli ultimi anni vi è stata una certa trasformazione dell’equilibrio strategico. La Cina si è dimostrata sempre più autonoma sia in campo politico, sia in campo economico ed è stata il perno del salvataggio delle economie asiatiche dopo la crisi del 1997 con il proprio sforzo di non svalutare lo yuan, nonostante le ripercussioni negative sulle esportazioni. I paesi dell’Asean, nati in una prospettiva di dipendenza dalla strategia statunitense al momento della fine della guerra in Vietnam, si stanno rivelando autonomi e talvolta anche polemici nei confronti dello strapotere economico degli Stati Uniti: non sono mancate voci, conservatrici e non certo rivoluzionarie, che hanno attribuito – probabilmente a torto – la crisi del 1997 a manovre americane. I giapponesi, nonostante il ridimensionamento della loro economia, restano il maggior creditore degli Stati Uniti e manifestano voci – certo non tranquillizzanti in quanto legate alla rivendicazione del valore della politica seguita nella seconda guerra mondiale – di crescente indipendenza. Le due Coree recentemente hanno messo in moto un processo che potrebbe portare, se non a una riunificazione, a una certa distensione e quindi a una messa in dubbio della necessità della presenza di quei 37 mila soldati statunitensi che presidiano nella penisola un tratto dello “Western Pacific Rim”; lo stesso vale per i 64 mila soldati statunitensi acquartierati nell’isola giapponese di Okinawa e oggetto di sempre più pesante ostilità della popolazione, nonostante la disponibilità al compromesso dei governanti giapponesi.

In tutto questo Clinton si è dimostrato politico incerto, ondeggiante, sensibile ai ricatti del Congresso dove è insediato un potente centro di inesauribili polemiche contro la Cina e più in generale di ostilità all’Asia. Se la difesa del “Western Pacific Rim” è uno dei punti cardine della strategia mondiale statunitense, è quindi necessario garantire la possibilità di una continuata presenza militare statunitense in Asia orientale: non è facile per un presidente rifiutare le richieste strategiche ( e quelle economiche connesse) avanzate dai militari. Per questo sono stati compiuti una serie di passi che non hanno mancato, motivatamente, di preoccupare i governanti cinesi. Nel 1996, in un momento di tensione tra Cina e Taiwan a seguito di esercitazioni militari cinesi, Clinton decise di inviare nuovamente la VII Flotta nello stretto e raggiunse anche con i giapponesi un accordo con il quale si consentiva alle forze nipponiche (che non dovrebbero neppure esistere in base alla Costituzione data dagli americani) di pattugliare una vasta area marittima e aerea che non a caso comprende sostanziali parti dello spazio aereo cinese. Quando nel 1998 i nordcoreani non trovarono di meglio di inviare un missile che ha attraversato fischiando tutto il territorio giapponese prima di finire nel Pacifico, gli Stati Uniti montarono una grande campagna per indurre il Giappone (e la Corea meridionale) a cercare ancora una volta rifugio sotto l’ala protettrice potente dello Zio Sam, attraverso un progetto di “scudo spaziale”.

Ogni volta che tra Cina e Taiwan si giunge a una fase di tensione, la stampa statunitense scatena una campagna come se stesse per scoppiare la terza guerra mondiale. Lo stesso è avvenuto nella primavera scorsa quando le elezioni di Taiwan sono state accompagnate da un’intensa guerra verbale tra le due parti cinesi. Per non parlare della Corea settentrionale presentata sempre come una minacciosa potenza nucleare. L’ipotesi di uno “scudo spaziale” – che per ora ha incontrato fiaschi tecnologici e comunque costerebbe carissimo – dovrebbe difendere il sacro territorio degli Stati Uniti da missili asiatici: poco probabile uno nord–coreano, non così uno cinese. I missili e le bombe nucleari cinesi non sono molti, ma meglio renderli inutilizzabili, appunto con uno “scudo spaziale”, che, come hanno messo in luce gli stessi governanti europei, costituisce una minaccia di guerra, in quanto disinnesca il meccanismo della deterrenza, risultato negli ultimi decenni fattore di pace.

E poi i cinesi sono spie formidabili. I nemici della Cina al Congresso non cessano di sfornare rapporti per accusare cinesi (o oriundi cinesi, o oriundi taiwanesi, o mezzi sangue) di aver rubato segreti nucleari o missilistici, o comunque strategici per mandare avanti lo sviluppo delle tecnologie militari cinesi. Che una grande potenza abbia delle spie, non sembra cosa che debba essere dimostrata: è ovvia. I più scafati governanti europei su questo non hanno esternato meraviglia. Che l’intera comunità degli scienziati asiatici negli Stati Uniti (in alcuni campi un terzo dei ricercatori) debba, su basi razziali, essere guardata con diffidenza, è un pessimo segno per la vita democratica degli Stati Uniti e potrebbe ridondare a danno della stessa scienza e tecnologie americane. Meglio accettare come un dato di fatto che la Cina ormai ha un suo importante apparato tecnologico, civile e militare, e che può ottenere in proprio, e con le proprie risorse intellettuali, molti dei risultati ottenuti da altri paesi. E non è detto che, per questo, voglia far la guerra agli Stati Uniti: non se la fecero né gli Stati Uniti né l’Unione Sovietica quando avrebbero potuto farla.

O il discorso è un altro? Nel fondo della cultura americana sta un elemento razzista. A quei “maledetti musi gialli”, siano essi cinesi o giapponesi, bisognerà pur dare una lezione prima o poi. Meglio quindi che siano disarmati, che non possano effettuare alcuna opera di deterrenza. Su questo terreno gli europei non sembrano afflitti dalla sindrome anti–asiatica americana e di fare la guerra all’Asia non ci pensano proprio. Per togliere i dubbi ai cinesi, era meglio non farla neanche alla Jugoslavia.