A marzo del 2011 la Cooperativa Editrice Aurora pubblicherà un libro sulla Cina contemporanea ed il socialismo, diviso in più parti e scritto da Sergio Ricaldone, Bruno Casati, Roberto Sidoli, Massimo Leoni.
Pubblichiamo uno stralcio della sezione inviataci ed elaborata da Roberto Sidoli e Massimo Leoni, intitolata “Cina: socialismo o capitalismo”.
Ritrovabile anche in www.lacinarossa.net
Di Roberto Sidoli.
Di Massimo Leoni.
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Capitolo I
Cina: socialismo o capitalismo?
Il processo di analisi della natura socioproduttiva della Cina contemporanea e della strategia politico- economica adottata negli ultimi decenni dal PCC (partito comunista cinese), dopo il 1976 e la morte di Mao Zedong, pone delle questioni teoriche e politiche di enorme rilievo, visto che nel gigantesco paese asiatico vive circa un quinto della popolazione mondiale e che proprio nel 2009 si è assistito ad un evento di portata eccezionale, il sorpasso della nuova superpotenza economica cinese rispetto al vecchio detentore del primato produttivo su scala mondiale, gli Stati Uniti (sorpasso in termini di parità nel potere d’acquisto dei rispettivi prodotti nazionali lordi).[1]
Per comprendere la matrice (contraddittoria, sdoppiata) socioproduttiva della Cina odierna, si deve partire dall’indagine sui suoi aspetti sociali di produzione, tenendo tra l’altro a mente che il “modello cinese” post-maoista è stato riprodotto largamente anche in Vietnam e Laos (paesi con circa 90 milioni di abitanti) a partire dal 1986, in base a decisioni prese in assoluta autonomia dai due partiti comunisti asiatici al potere.[2]
Contrariamente alle tesi diffuse in alcuni settori del movimento anticapitalistico occidentale, secondo i quali dopo la svolta del 1976/78 si sarebbe attuata una sorta di restaurazione borghese nel gigantesco paese asiatico, la “linea rossa” e le relazioni sociali di produzione/distribuzione collettivistiche risultano ancora oggi egemoni e centrali all’interno della variegata, composita e “sdoppiata” formazione economico-sociale cinese del 2000-2010.
Come punto di partenza riprendiamo alcuni recenti articoli sulla Cina di orientamento apertamente anticomunista, che forse possono servire a provocare uno shock salutare in alcuni lettori e compagni.
Il 16 novembre del 2010 J. Dean scriveva sul Wall Street Journal, la “bibbia” dei capitalisti di tutto il mondo, rilevando con preoccupazione come il governo e lo stato cinese possiedono “tutte le maggiori banche in Cina, le tre maggiori compagnie del settore petrolifero e delle telecomunicazioni, le più grandi aziende nei mass-media”. Sempre il Wall Street Journal ha notato che i beni di proprietà delle imprese statali nel 2008 equivalevano a ben 6000 miliardi di dollari, il 133% del prodotto nazionale lordo cinese di quello stesso anno ed in percentuale più di cinque volte del valore accumulato dalle imprese pubbliche (ferrovie, ecc.) francesi, il paese a sua volta più “dirigista” del mondo occidentale.
Una seconda sorpresa è arrivata il 7 luglio del 2010: un professore dell’università di Yale, Chen Zhiwu, ha rilevato sull’International Herald Tribune (pag. 18) che “lo stato cinese controlla tre quarti della ricchezza in Cina…”: il 75%, quindi, non lo 0,1% del processo produttivo del gigantesco paese asiatico.
A sua volta il giornalista Isaac Stone Fish, sulla rivista statunitense Newsweek del 12 luglio 2010, ha attirato l’attenzione sulle “imprese di proprietà statale, che dominano in modo crescente l’economia cinese…” pertanto negli ultimi anni si assiste ad un processo di incremento del peso specifico del settore pubblico all’interno della Cina, non alla sua riduzione.. [3]
Altro microshock. Il 28 settembre del 2009 il sito China Stakes rilevava che, tra l’aprile ed il settembre di quell’anno, il governo o le autorità locali della provincia dello Shanx, (la “capitale del carbone” della Cina) avevano nazionalizzato ben 2840 miniere appartenenti in precedenza ad investitori privati, autoctono o stranieri, con indennizzi di regola ritenuti da questi ultimi “insoddisfacenti”.
Tang Xiangyang, sulla rivista Economic Observer News del settembre 2009, ha preso in esame l’elenco che viene diffuso ogni anno in Cina sulle 500 principali aziende del paese, edito tra l’altro a partire dal 2002 da un organismo che comprende al suo interno anche tutte le principali imprese private, autoctone o multinazionali, che operano in esso.
Con tono sconsolato, Tang Xiangyang ha dovuto intitolare il suo articolo “I monopoli di stato dominano la top 500 della Cina”, notando subito che durante il 2008 tutte le prime 43 posizioni nell’elenco in oggetto erano occupate… da aziende, industrie e banche statali, completamente o a maggioranza in mano al settore pubblico. Le imprese private e i monopoli capitalistici, tanto decantati in occidente, svolgevano il ruolo di “cenerentola” nel processo produttivo cinese, tanto che Tang Xiangyang è stato costretto a rilevare con una certa angoscia come la più grande azienda privata cinese, la Huawei Tecnologies con base a Shenzen, occupasse solo il 44° posto nella lista; dato ancora peggiore per il povero Tang, solo un quinto e solo cento delle “top 500? in Cina erano aziende capitalistiche, la cui percentuale sull’importo globale delle vendite ottenute nel 2008 dalle prime cinquecento imprese risultava pari a un deludente … 10%, ad un modesto decimo del reddito globale espresso da queste ultime nella Cina del 2008.[4]
Nella classifica sulle 500 imprese più grandi al mondo, inoltre, pubblicato dalla rivista Fortune nel luglio del 2010, risultano presenti 42 imprese della Cina continentale (con esclusione di Taiwan, Hong Kong e Macao): e su queste 42 (a partire dalla statale Sinopec, numero sette su scala planetaria), gigantesche aziende cinesi, risultano essere di proprietà pubblica, in tutto o in larga parte, beh…41: quarantuno società su quarantadue.
A sua volta Dick Morris, giornalista di sicura fede anticomunista, nel luglio del 2009 intitolava un suo articolo “Il socialismo non funziona nemmeno in Cina”, lamentandosi (dal suo punto di vista) che in Cina ben l’80% di tutte le attività di investimento venisse finanziata da banche statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica, e che (orrore ancora maggiore) le imprese di stato cinesi esprimessero ben il 70% dell’insieme degli investimenti di capitali in Cina
Percentuale tra l’altro in crescita progressiva, protestava con vigore l’indignato Dick Morris, e che ingiustamente favoriva la “triste storia del settore socialista in Cina” sempre a giudizio del pubblicista occidentale.[5]
Quarantatre società statali ai primi quarantatre posti nella “top 500?, il 70% degli investimenti produttivi cinesi da imprese pubbliche: anche a prima vista, non si tratta certo di “residui” socioproduttivi di marca socialista dei (presunti) “bei tempi passati”.
Servono altri dati? Bene, ne troveremo altri facilmente.
Secondo l’autorevole economista statunitense Christopher Mcnally, nel 2009 le imprese statali (in tutto oppure in larga parte di proprietà pubblica) producevano circa il 60% del prodotto nazionale lordo cinese: senza tener conto del settore cooperativo, in una nazione spesso definita a torto come capitalista.[6]
Sul New Jork Times del 29 agosto 2010, Michael Wines notava infine con preoccupazione come la Cina negli ultimi anni avesse rafforzato il settore statale, tanto che delle 100 più grandi imprese cinesi quotate in borsa, affermava sconsolato il giornalista statunitense, ben 99 erano in maggioranza (quasi totale/egemoni) di proprietà statale, ed una sola invece privata e capitalista.[7]
L’egemonia contrastata della “linea rossa”, all’interno della proteiforme formazione economico-sociale cinese del 2000-2010, si compone e viene costituita innanzitutto da quattro “grandi anelli” materiali, strettamente interconnessi tra loro.
Il primo tassello socioproduttivo della “linea rossa”, nella Cina contemporanea, viene rappresentato dall’enorme ruolo e peso specifico mantenuto tutt’oggi dalle grandi imprese statali, in tutto o in larga parte di proprietà pubblica, che operano nel settore industriale e bancario, estrattivo e commerciale della grande nazione asiatica.
Il 3 settembre del 2007 il Quotidiano del Popolo di Pechino, l’organo di stampa più prestigioso del Partito Comunista Cinese (PCC), ha riportato che nel 2006 le 500 principali imprese della Cina (ivi comprese banche, settore petrolifero, ecc.) controllavano e possedevano l’83,3% del PNL cinese, in netto aumento rispetto al 78% del 2005 ed al solo 55,3% del 2001: tra questi 500 grandi colossi, 349 e quasi il 70% del totale erano di proprietà statale, in modo completo o con una quota di maggioranza appartenenti alla sfera pubblica.
Il trend generale è continuato anche nel 2009. Secondo i dati forniti il 4 settembre del 2010, l’anno precedente le prime 500 imprese cinesi avevano raggiunto un reddito operativo pari a più di quattromila miliardi di dollari, quasi il doppio del PNL italiano: di questi 4005 miliardi di dollari meno di un quinto era stato prodotto dalle imprese private, dimostrando ancora una volta l’egemonia (contrastata) del settore statale all’interno dell’economia cinese.
Sempre nel 2006 il giro di affari e le vendite delle imprese statali (completamente o in maggioranza statali) risultò di 14,9 migliaia di miliardi di yuan, su un totale di 17,5 migliaia di miliardi di yuan di vendita globale collezionati dalle prime 500 imprese, pari a circa l’85% dell’insieme del giro d’affari della ricchezza prodotta da queste ultime; visto che la quota dei “500 big”sul prodotto nazionale lordo cinese era pari al sopraccitato 83,3%, la quota percentuale delle 349 imprese statali sul PNL cinese ufficiale risultava pari al 70% ed a quasi tre quarti della ricchezza globale cinese.[8]
Nel 2008 il giro d’affari delle SOE (imprese statali cinesi, in tutto o a maggioranza) era ancora aumentato fin a quasi raggiungere i 18 migliaia di miliardi di yuan e per una quota sempre pari a circa il 70% del PNL interno, equivalente a 24,66 migliaia di miliardi di yuan nell’anno preso in esame, mentre il numero di impiegati in esse era pari a circa 35 milioni.[9]
Nel 2009 il giro d’affari della SOE superava a sua volta i 20 migliaia di miliardi di yuan, con un ulteriore e netto incremento rispetto all’anno precedente.
Anche se una parte nettamente minoritaria delle imprese statali risulta in mano ai privati, autoctoni o stranieri, come soci di minoranza, mentre una quota “sommersa” del PIL cinese non emerge dalle statistiche ufficiali, si tratta di dati assolutamente sconosciuti al reale capitalismo monopolistico di stato egemone nell’area occidentale e giapponese, segnata tra il 1979 ed il 2005 da processi giganteschi di privatizzazione delle imprese produttive statali, che hanno invece solo sfiorato in misura modesta l’economia cinese.
La principale debolezza del settore statale cinese consiste nel suo minor tasso medio di profitto rispetto alla sfera privata, autoctona o straniera. La massa di profitto ottenuta dalla SOE è passata dai 90 miliardi di yuan del 1995 fino ai 221 del 2002, balzando poi nel 2007 alla cifra di 1620 miliardi di yuan (221,9 miliardi di dollari): un incremento eccezionale, dovuto anche al doloroso processo di ristrutturazione delle imprese statali sviluppatosi tra il 1998 ed il 2006, ma che non è ancora sufficiente a far raggiungere alle SOE i margini di redditività ottenuti negli stessi anni dal settore privato, che tra il gennaio e il novembre del 2007 avevano raggiunto una massa di profitto di 400 miliardi di yuan solo nel segmento delle grandi imprese private, trascurando le medie, piccole e piccolissime imprese.[10]
Il secondo anello principale che garantisce tuttora l’egemonia contrastata della “linea rossa”, all’interno della variegata formazione economico-sociale cinese, viene rappresentato dalla proprietà pubblica del suolo cinese, che può essere concesso legalmente in usufrutto a privati solo in determinate condizioni e con l’approvazione preventiva dello stato. Ancora recentemente l’assemblea legislativa cinese ha rifiutato qualunque proposta di privatizzazione della terra in Cina: il 30 gennaio del 2007 Chen Xiwen, direttore dell’ufficio agricolo del governo centrale, dopo aver ribadito un secco diniego alle ipotesi di privatizzazione, ha notato che la terra veniva data in usufrutto ai contadini per trent’anni e che ogni ipotesi di subaffitto del suolo da parte dei contadini alle imprese industriali era pertanto da considerarsi come assolutamente illegale.[11]
Anche secondo le nuove leggi entrate in vigore dal primo ottobre 2007, la proprietà della terra in Cina si divide in due tipi fondamentali: quella statale per le aree urbane, e quella invece posseduta collettivamente dai singoli villaggi rurali nelle campagne del gigantesco paese asiatico, villaggi ed agglomerati riconosciuti come Organizzazioni Economiche Collettive (OEC), che distribuiscono l’usufrutto della terra alle famiglie contadine e/o alle cooperative di produzione agricola nei loro villaggi.
Proprio nell’ottobre del 2008, le autorità centrali hanno presentato un progetto di legge che tutelerà gli OEC dall’espropriazione di terre per i bisogni produttivi delle imprese, per nuove strade, ferrovie, ecc., consentendo allo stesso tempo alle famiglie contadine già usufruttuarie della terra un maggiore livello di protezione socioproduttiva e politica.
Il terzo segmento socioproduttivo che costituisce il mosaico della “linea rossa” in Cina è costituito dal settore cooperativo, in particolar modo dalle imprese cooperative (industriali ed artigianali) di villaggio, di proprietà di tutti gli abitanti dei villaggi o municipi interessati secondo una pratica produttiva regolarizzata da una legge del 1990.
Il Fondo Monetario internazionale (2004) ha stimato che se già nel 1980 le cooperative non agricole di villaggio impiegavano circa 30 milioni di lavoratori, nel 2003 la cifra era salita a più di 130 milioni di unità lavorative, rimanendo quasi invariata negli ultimi cinque anni e coprendo circa il 20% dell’attuale forza lavorativa cinese, anche se alcune di queste cooperative hanno perso il loro carattere originario ed hanno subito un processo mascherato di privatizzazione.
Come ha notato G. Arrighi, il momento fondamentale per il processo di sviluppo delle cooperative rurali non agricole è stato paradossalmente «l’introduzione, nel 1978/1983, del sistema di responsabilizzazione familiare, che faceva tornare il potere decisionale e il controllo sul sovrappiù agricolo alle famiglie, togliendoli alle comuni. Inoltre nel 1979, e poi ancora nel 1983, i prezzi pagati per gli approvvigionamenti di prodotti agricoli sono stati aumentati in misura significativa. Il risultato è stato un aumento importante della produttività delle fattorie e dei redditi agricoli, che a sua volta ha ringiovanito “l’antica” propensione delle comunità e delle brigate agricole a cimentarsi anche nella produzione non agricola. Tramite una serie di barriere istituzionali alla mobilità personale, il governo incoraggiava il lavoratore agricolo a “lasciare la terra senza abbandonare il villaggio”. Nel 1983, tuttavia, venne permesso ai residenti nelle aree rurali di intraprendere attività di trasporto e di commercio anche a grande distanza, alla scopo di trovare sbocchi di mercato ai loro prodotti. Era la prima volta nel corso di quella generazione che ai contadini cinesi veniva consentito di condurre affari fuori dai confini del proprio villaggio. Nel 1984 i regolamenti vennero ulteriormente addolciti, consentendo ai contadini di andare a lavorare nelle città vicine per presentare la loro opera in organismi collettivi noti come “imprese di municipalità e villaggio”.
Il risultato fu la crescita esplosiva della massa di forza-lavoro rurale impiegata in attività non agricole, dai 28 milioni del 1978 ai 136 milioni del 2003, con gran parte dell’aumento localizzato nelle imprese di municipalità e villaggio. Fra il 1980 e il 2004 le imprese di municipalità e villaggio hanno creato un numero di posti di lavoro quadruplo di quelli persi nello stesso periodo nelle città delle imprese statali o collettive. Nonostante fra il 1995 e il 2004 il tasso di crescita dell’occupazione nelle imprese di municipalità e villaggio sia stato inferiore al tasso di disoccupazione degli impieghi urbani statali e collettivi, il bilancio dell’intero periodo mostra che alla fine le imprese di municipalità e villaggio occupano ancora più del doppio dei lavoratori impiegati complessivamente nelle imprese urbane a proprietà straniera, a proprietà privata e a proprietà mista.
Il dinamismo delle imprese rurali ha colto di sorpresa i dirigenti cinesi. Come riconobbe Deng Xiaoping nel 1993, lo sviluppo delle imprese di municipalità e villaggio “fu del tutto inatteso”. Da allora il governo è intervenuto per regolare e dare una normativa alle imprese rurali e nel 1990 la proprietà delle imprese di municipalità e villaggio è stata conferita collettivamente a tutti gli abitanti del municipio o del villaggio interessato. Il potere di assumere o licenziare i direttori delle imprese fu però conferito alle autorità locali, con la possibilità di demandare tale scelta a una struttura governativa. Anche la distribuzione dei profitti è stata sottoposta a normativa, introducendo l’obbligo del reinvestimento nell’impresa di più del 50% dei profitti per modernizzare e ingrandire gli impianti e per finanziare servizi e grafiche per i lavoratori, mentre la quasi totalità di quel che resta deve essere impiegata per infrastrutture agricole, miglioramenti tecnologici, servizi pubblici e investimenti di nuove imprese».[12]
A fianco delle cooperative rurali (non agricole) di villaggio, tutt’ora esiste una grande e variegata rete di cooperative agricole ed edilizie, di consumo e/o urbane, che fanno parte della Federazione delle Cooperative cinesi, interessando in forme diverse buona parte della popolazione cinese a partire dei 10 milioni di persone che lavoravano direttamente al loro interno nel 2003.
Nel 2002 ammontavano invece a circa 100 milioni gli associati delle cooperative cinesi facenti parte dell’ Alleanza Internazionale delle Cooperative, mentre nel 2003 le 94.711 cooperative cinesi (di tutti i generi e tipologie) contavano al loro interno la “modica” cifra di 1.193.000.000 di uomini e donne, associati a vario titolo.[13]
Secondo una tesi assai diffusa nella sinistra occidentale, non sono esistite quasi più cooperative rurali in Cina dopo la morte di Mao.
Il Quotidiano del Popolo del 21 agosto 2010 (”China rural cooperatives Relp boost farmers’income”) a riportato invece che a marzo del 2010 esistevano ormai più di 270000 cooperative agricole in Cina, quasi il triplo di quelle operanti alla fine del 2008: coinvolgendo già ora decine di milioni di contadini associati alla “linea rossa”, e godendo del forte sostegno politico-economico da parte dello stato cinese.
Nel completo silenzio dei mass-media occidentali, dal 2007 nelle campagne cinesi stà ormai crescendo una gigantesca ondata cooperativa, assolutamente volontaria, la quale ha fatto in modo che all’inizio del 2010 più di un villaggio cinese su tre abbia al suo interno una cooperativa di produzione agricola: non a caso il Global Times (28 giugno 2010, “Small farrners are harvesting the big market”) ha sottolineato come sia la seconda volta, dopo il 1953/58, che i contadini cinesi su larga scala “si stiano “organizzando per lavorare assieme” e per produrre in modo cooperativo, creando un fenomeno assai importante sia su scala cinese che mondiale.
Un ulteriore tassello della “linea rossa” cinese viene costituito dal “tesorone” di proprietà statale che è stato accumulato progressivamente dopo il 1977, e cioè dalla massa enorme di valuta straniera e da titoli del tesoro esteri via via rastrellati negli ultimi tre decenni dall’apparato statale cinese.
Mentre nel 1978 le riserve valutarie statali risultavano pari solo a tre miliardi di dollari (M. Bergere), a fine giugno 2008 il “tesorone” di proprietà pubblica della Cina ha raggiunto la cifra astronomica di 1810 miliardi di dollari ed un valore pari a circa il 50% del prodotto nazionale lordo (nominale) del paese: detta in altri termini, al PNL cinese controllato dalle imprese statali va aggiunta un’altra massa enorme di denaro e risorse di proprietà pubblica convertibili in ogni momento con facilità, un’altra enorme quota di ricchezza saldamente in mano all’apparato statale ed a disposizione dei bisogni dello stato e del popolo cinese.[14]
Un “tesorone” in via di progressivo aumento che nel settembre 2010 ha raggiunto quota 2650 miliardi di dollari, risultando equivalente già ora a quasi il triplo delle riserve valutarie statali a disposizione del Giappone e superando nettamente l’intero PNL dell’Italia.
Oltre che dai “quattro anelli” principali sopra descritti,la supremazia (contrastata) del settore socialista sull’insieme dell’economia cinese viene garantita e rappresentata da numerosi altri strumenti, allo stesso tempo politici ed economici, quali:
– il possesso e controllo statale della stragrande maggioranza delle risorse naturali del paese, a partire da quelle idriche ed energetiche.
– il quasi totale monopolio statale del settore militar-industriale, spaziale e delle telecomunicazioni.
– la presenza di numerose imprese municipalizzate in quasi tutte le città cinesi, aziende possedute e controllate dagli organismi politici locali.
– la politica demografica del “figlio unico” (non applicata alle minoranze etniche del paese), con i suoi positivi riflessi sia sull’economia che sul processo complessivo di riproduzione della forza lavoro del gigantesco paese asiatico.
– il processo partigiano ed unidirezionale di concessione dei prestiti bancari, denunciato da Dick Morris: ancora nel primo decennio del ventunesimo secolo essi vengono destinati nella loro grande maggioranza a favore del settore statale e cooperativo, mentre solo per una porzione secondaria vanno alla sfera privata.[15]
– l’utilizzo del sistema finanziario principalmente al servizio dello stato, che se ne serve anche “per scopi come la lotta all’evasione fiscale”, riconosciuti persino da studiosi anticomunisti.[16]
– il progressivo aumento, negli ultimi dieci anni, della quota del PIL cinese amministrata direttamente dallo stato: percentuale passata dal 11% circa del 1998 fino al 23% del 2007.[17]
– il processo relativamente esteso di riacquisto dell’intera proprietà di alcune delle joint-ventures formatesi tra stato e multinazionali statali da parte del contraente pubblico cinese, come testimoniato da Luigi Vinci (Rifondazione Comunista) in un suo articolo sulla dinamica politico-sociale cinese.[18]
– molte delle principali multinazionali straniere che operano in Cina sono state costrette ad accettare di costruire joint-ventures alla pari (50 e 50 per cento) con aziende statali per poter operare in terra cinese, fuori dalle zone speciali: ad esempio la Volkswagen ha creato (fin dal 1984) una joint-venture paritaria con l’azienda statale SAIC che durerà almeno fino al 2030, imitata in questo senso dalla General Motors, da Microsoft, ecc
– l’intreccio spesso creatosi in Cina tra azionisti privati e proprietà pubblica/statale, all’interno di imprese apparentemente capitalistiche, a volte può ingannare. Basti pensare che se la Lenovo, una delle più importanti imprese al mondo nella produzione di computer, agli occhi occidentali rappresenta una compagnia privata, alla fine del febbraio 2008 almeno il 30% della Lenovo risultava in mano statale.
– il potere reale di fissare” dall’alto” e per via politica i prezzi di alcuni beni e servizi, come è successo nei primi mesi del 2008 per benzina , grano, latte e uova, al fine di combattere l’allora crescente inflazione (misure analoghe vennero prese nel 1996 e 2003)
– il pieno controllo statale su decisive condizioni generali della produzione quali dighe, centrali elettriche, canali di irrigazione, sistema ferroviario e stradale, ponti e sistema di internet, la ricerca scientifica ed il settore high-tech, ecc.
– il processo di creazione e riproduzione di nuovi settori produttivi attraverso l’azione statale, come sta avvenendo per la fusione termonucleare (progetto East, già in funzione), i supercomputer made in China ed il nuovo polo aeronautico civile autoctono (gestito e finanziato direttamente dalla sfera pubblica con l’erogazione della notevole somma di 19 miliardi di yuan, a partire dall’estate del 2008), le nanotecnologie e le infrastrutture per telecomunicazioni, ecc.[19]
– dal giugno 2010, il totale controllo della sfera pubblica cinese sui metalli rari, di cui il gigantesco paese asiatico è di gran lunga il maggior produttore. Nel 2009 ben il 94% del consumo mondiale degli essenziali metalli rari (antimonio,gallio, tungsteno, ecc.) proveniva dalle miniere statali cinesi, mentre già l’acuto Deng Xiaoping aveva notato verso la metà degli anni Novanta che “il Medioriente ha il petrolio, la Cina i metalli rari”
– il settore dei mass-media (dalla televisione fino agli studi cinematografici) risulta da sempre sotto il pieno controllo e di proprietà della sfera pubblica, egemonizzata dal partito comunista cinese: non esiste un Berlusconi cinese, un Murdoch cinese, ecc.
– l’economia “verde” in Cina risulta in realtà assai “rossa”: proprio recentemente è stato pubblicizzato un gigantesco piano statale, che prevede l’impiego dei fondi pubblici per cento miliardi di dollari al fine di sviluppare ulteriormente le fonti energetiche pulite, progetto definito negli USA come uno “Sputnik verde”.
[1] R. Sidoli, “Cina e Stati Uniti: il sorpasso”, in www.lacinarossa.net, febbraio 2010
[2] Quotidiano del Popolo, 18 settembre 2009, “Can Chinese model be replicated? ”
[3] D. Losurdo, ” Un istruttivo viaggio in Cina”, 28 luglio 2010, in www.lernesto.it
[4] Tang Xiangyang, “State monopolies dominate China’s Top 500?, in Economic Observer News, 9 settembre 2009, www. eco.com.cn
[5] Dick Morris, “Socialism doesn’t work-not even in China”, 27 luglio 2009, in www.dickmorris.com
[6] L. E. Eskildson, “China: SOEs produce 60% of its GDP” luglio 2010, in www.tradereform.org
[7] M. Wines, “China fortifies state business to fuel growth”, 29 agosto 2010, in www.nytimes.com
[8] Quotidiano del Popolo, 3 settembre 2007 “Top 500 Enterprises 2006? e 3 settembre 2006 “Top 500 Enterprises 2005?
[9] Quotidiano del Popolo, 24 gennaio 2008 “China’s state owned enterprises”; R. Sidoli, “I rapporti di forza”, cap.settimo, aprile 2009 (in www.robertosidoli.net)
[10] Quotidiano del Popolo, 24 gennaio 2008, articolo citato e 3 febbraio 2008 “Private economy develops rapidly”
[11] Quotidiano del Popolo, 30 gennaio 2007 “China says no to land privatization”
[12] G. Arrighi, “Adam Smitha Pechino”, pp. 398-399, ed. Feltrinelli
[13] www.ernac.net-coperatives, “China”; Statistiche FMI, 2004-Cina, in www.imf.org
[14] la Repubblica, Affari e Finanza, 14 febbraio 2008, p. 3
[15] Le Monde, 13 novembre 2002 “Dossier Cina”; F. Sisci, “Made in China”, pp. 113-114, ed. Carrocci
[16] F. Sisci, op. cit., p. 113
[17] www.resistenze.org/sito/de/po/ci/poci8
[18] L. Vinci, rivista L’Ernesto, ottobre 2002
[19] la Repubblica, Affari e Finanza, 14 febbraio 2008, p. 40