Cina «armoniosa» nel 2020

La Cina di Deng Xiaoping compie quest’anno 28 anni e comincia ad avere più anni della Cina di Mao. Forse è anche per questo che nel suo ultimo conclave il Comitato centrale del Partito comunista non ha lesinato in solennità, definendo quello in corso un «periodo cruciale» per le riforme e lo sviluppo. Tanto più che che quasi trent’anni di crescita a rotta di collo hanno consegnato alla attuale leadership una serie di nodi da sciogliere al più presto, pena lo strangolamento dello stesso sistema. Così mai come nel Plenum terminato mercoledì scorso, dopo quattro giorni di discussioni, l’accento sulla «costruzione di una armoniosa società socialista» è stato tanto martellante e così rivelatorio di profonde lacerazioni, nell’ossessiva ripetizione dello slogan nel comunicato ufficiale finale, che conteneva l’espressione in ognuno dei suoi paragrafi.
Nulla è emerso, come è di prammatica, sulla discussione che i 347 membri del Politburo hanno tenuto sulla relazione del segretario del partito Hu Jintao, primo propugnatore della «società armoniosa». Ma il risultato finale è un lungo elenco di impegni a raddrizzare i torti di un sistema economico e sociale le cui profonde iniquità e squilibri vengono indirettamente denunciate dalle molte promesse scritte nero su bianco e diffuse, queste sì, da tutti i telegiornali nazionali, che mercoledì hanno fatto del comunicato finale il pezzo forte della propria programmazione serale.
Le promesse garantiscono che, da qui al 2020, la Cina diventerà un armonioso paradiso socialista. Cifre e dati non hanno preso troppo tempo ai delegati, ma un impegno salta agli occhi per la sua enormità: quello di fornire entro i prossimi 15 anni a non meno di un miliardo di cinesi un welfare state degno di questo nome, che garantisca copertura sanitaria, pensioni adeguate, assistenza nel periodo di maternità, risarcimenti sostanziosi in caso di infortuni sul lavoro. D’ora in poi, recita il comunicato finale, si dovrà seguire il principio «people first», prima il popolo. Lo sviluppo economico, che ancora marcia a oltre il 10% di crescita l’anno, «è necessario», naturalmente, ma si deve imporre la regola che «lo sviluppo è per il bene del popolo …e i suoi frutti devono essere divisi fra il popolo». «Ci sono molti problemi e conflitti che colpiscono l’armonia sociale» si legge ancora nel comunicato «il nostro partito deve essere più attivo nel riconoscere e risolvere queste contraddizioni». Un Partito che, chiamato a risolvere i problemi, ne è però oggi parte integrante, corrotto e riottoso ai richiami centrali come è.
Non pare tuttavia solo parole, e sembra rientrare in questa nuova era, la legge per rafforzare il ruolo dei sindacati nelle fabbriche, che la Cina si preparerebbe a varare, secondo quanto rivelato da fonti del ministero del lavoro. Non c’è nessuna conferma ufficiale, ma le indiscrezioni dicono che la legge si applicherà a tutte le compagnie, incluse quelle straniere, che operano nel paese, seguendo il «modello Wal Mart», il gigante americano della distribuzione che proprio in Cina ha dovuto aprire le porte ai sindacati, per la prima volta nella sua storia. Il panico serpeggia fra le compagnie rifugiatesi nell’antico Regno di Mezzo per liberarsi da ogni conflitto nelle rispettive patrie e un’attività frenetica di lobbying sarebbe in corso, come scriveva ieri il New York Times. Vero è che ad assumere il ruolo di difensori dei diritti dei lavoratori sarebbe la Federazione ufficiale dei sindacati, mai distintasi finora per le proprie strenue lotte, anche se le cause da difendere non sarebbero mancate. Longa manus de partito, la Acftu è stata finora più incline a chiudere gli occhi persino davanti alle situazioni più oltraggiose e mai si è appellata alle leggi di tutela, che pure esistono. Ma perché non sperare che le cose cambino davvero?