Cina a passo di carica

Mentre stappiamo champagne per la crescita italiana – +2% – nei primi due mesi dell’anno la Cina ha viaggiato al ritmo mai visto prima del 18,5%. Le previsioni erano esaltanti, ma leggermente inferiori: +15,5. Le esportazioni, nello steso periodo, sono cresciute del 50%. Gli analisti, dal profondo dei loro pensatoi, ritengono che ciò preluda a una brusca frenata imposta magari a suon di aumento dei tassi di interesse (aumentando il costo del denaro, spiega la teoria liberista, l’economia rallenta).
Sarà, ma questo è un nuovo record che non dovrebbe giungere gradito neppure al vertice del partito cinese, preoccupato per una dinamica esplosiva che rischia di rendere ingovernabile un paese di un miliardo e trecento milioni di persone. I numeri, qui, danno un’impressione diversa rispetto a casa nostra. In Cina cresce l’economia e crescono, altrettanto velocemente, i disoccupati, fra l’altro privi di ogni assistenza pubblica (medica o sociale). Si prevede che solo quest’anno si presenteranno sul mercato del lavoro metropolitano ben 24 milioni di aspiranti dipendenti. Solo 12 di loro troveranno un posto. Il che significa che i disoccupati aumenteranno di 12 milioni. Buona parte di questa massa è composta da contadini attirati dal miraggio dei nuovi centri industriali e da ex dipendenti statali, che magari non ricevono più da mesi stipendio e assistenza. Dal 1998 a oggi 28 milioni di statali hanno perso il posto, altri 3 saranno mandati via nei prossimi due anni. In certe zone il 50% delle imprese pubblche non paga i salari da oltre un anno; gran parte dei licenziati non ha diritto a una pensione, il 90% non ha assistenza medica gratuita. Ma 6 milioni di nuovi runners saranno laureati. Di buona qualità.
La «quarta economia mondiale» non mostra segni di surriscaldamento, se si misura la temperatura col termometro degli indici. Ma la struttura sociale destabilizzata da un ventennio a tutta birra mostra segni evidenti di ridotta coesione. E la Cina non è più, nell’economia globalizzata, un lontano paese le cui vicende non ci riguardano. Lorenzo Bini Smaghi, membro del direttivo della Bce, spiegava solo ieri che se paesi come la Cina dovessero registrare un rallentamento, o avere una crisi finanziaria, le conseguenze per noi europei sarebbero più gravi di una recessione negli Usa. Perché lì esportiamo più che negli States, ormai. Se ciò avvenisse, quei paesi ritirerebbero i loro capitali investiti (finanziariamente) qui, con gravi conseguenze sull’andamento dei tassi di interesse europei (per attirare altri capitali bisognerà alzarli, questi diavolo di tassi…).
Non basta. Le nostre vedute eurocentriche sono ormai così vetuste che Roberto Colaninno – il capofila dei «capitani coraggiosi» che si comprò Telecom con capitali a prestito, per rivenderla poi (carica di debiti) a Tronchetti Provera, guadagnandoci un fantastiliardo – appare un raffinato intellettuale capace di annusare i cambiamenti epocali in atto nel mondo: «quando la domanda cresce del 40% annuo, come accade a noi in India, non si tratta più di essere lì perché il costo del lavoro è inferiore all’Europa. C’è un nuovo mondo che sta emergendo».
Non l’hanno ancora capito le imprese estere che investono in Cina. L’aumento delle cause di lavoro verso queste aziende ha convinto il governo cinese a pretendere una rappresentanza sindacale in ogni fabbrica. Gli occidentali, che starebbero lì anche per far capire l’importanza dei «diritti umani», si oppongono perché ciò «limiterebbe la loro libertò di organizzazione».