Alla fine è morto. Il tempo gli ha tolto tutti i titoli con cui avrebbe voluto passare alla storia: Padre della Patria, Fondatore della II Repubblica, Protagonista Supremo del XX secolo cileno, Estirpatore del marxismo. Gli uomini non sono riusciti a punirlo per i suoi crimini ma la Storia si è fatta beffe di lui e lo ha lasciato vivere abbastanza per vedersi ridotto a un vecchio affetto da «demenza senile». La destra cilena, che si era valsa di lui per recuperare i suoi privilegi minacciati, da anni lo aveva messo da parte. Negli ultimi tempi si contano sulle dita di una mano quelli che sono andati a rendergli visita. Di solito era qualche generale o colonnello in pensione.
Nel marzo del 2002 il suo fedele alleato di sempre, il quotidiano conservatore El Mercurio, così descriveva il fatiscente generale, nato nel 1915, subito dopo aver sofferto uno dei suoi reali o immaginari attacchi cerebrali coincidenti ogni volta con gli appuntamenti giudiziari a cui lo chiamava il giudice Juan Guzman: «Chi lo ha visto, dice che Pinochet si affoga quando mangia o beve. Perde anche l’equilibrio. In più di un’occasione è inciampato e caduto. Oltretutto continua a mangiare di nascosto e per questo è ingrassato».
In realtà, visto nella prospettiva del tempo, Pinochet non sarà ricordato che come uno dei tanti dittatori militari che attraverso gli anni e i secoli si sono impossessati dell’America latina. Uno in più nella saga di Batista a Cuba, Somoza in Nigaragua, Trujillo nella Repubblica dominicana, Stroessner in Paraguay, Perez Jimenez in Venezuela, Rojas Pinilla in Colombia, Videla in Argentina. Tutti loro amavano la patria al di sopra di qualsiasi altra cosa, erano disposti a morire per essa – ciò che in realtà non è mai capitato – e si sono lasciati dietro qualche opera pubblica insieme a storie terribili, come quelle di Trujillo, immortalato dallo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa nel suo La festa del caprone, che gettò vivo un suo oppositore dentro una caldaia accesa. Pinochet fece volare in pezzi il suo amico e compagno d’armi, il generale Carlos Prats. Videla fece rubare i neonati delle madri fatte partorire nei centri di tortura e poi fatte scomparire nel nulla.
Se non la giustizia, di loro si occupò la letteratura. Augusto Roa Bastos, il grande scrittore paraguayano, ha dedicato un romanzo superbo al suo dittatore ottocentesco Gaspar Francia: Io, il Supremo. Vargas Llosa ha reso immortale il dominicano Trujillo, Garcia Marquez ha scritto L’autunno del patriarca certo pensando a Rojas Pinilla, il cubano Carpentier ci ha lasciato Il ricorso del metodo. Su Pinochet nessuno ha scritto romanzi, finora. Forse per la sua estrema volgarità, forse per la mancanza di immaginazione dei cileni, o forse per la paura che ha attanagliato questo paese. Per sempre. La paura che è scesa sul Cile dall’11 settembre 1973, quando iniziò il suo spietato potere e i cileni sentirono per la prima volta quelle vocetta fessa, così impropria per un militare e che col tempo è diventata un rantolo.
La verità storica su quel giorno non è ancora stata scritta tutta. Ci sono voluti trent’anni perché la tv o qualche libro isolato cominciassero a dire che Pinochet non fu che la faccia visibile di una cospirazione diretta dagli Stati uniti, da quel paranoico di Richard Nixon e dal suo cinico consigliere Henry Kissinger. I due giurarono di «farla pagare» al Cile. Si dovevano tagliare alla radice le fantasie rivoluzionarie accese da Castro a Cuba e Allende in Cile. Pinochet sembrava il tipo giusto ma avrebbe potuto benissimo essere un qualsiasi altro generale imbottito a dovere con la brutale Dottrina della sicurezza nazionale che, dagli Stati uniti, sosteneva che «il nemico» era dentro il paese e andava trattato come i francesi in Algeria.
In realtà Pinochet fu sul punto di non essere l’uomo del destino. Il generale, mai stato un coraggioso, si rifiutò fino all’ultimo momento di schierarsi con i cospiratori. E fino all’ultimo momento giurò lealtà ad Allende. L’11 settembre, solo quando si sentì sicuro che il golpe aveva vinto e che Allende era morto uscì allo scoperto. Se avesse ritardato qualche minuto – ricordano i militari – il generale Sergio Arellano Stark avrebbe preso il suo posto. Ma anche con Arellano, quello della «Carovana della morte», non sarebbe cambiato nulla. Durante quel lungo 11 settembre, Pinochet parlò molte volte per telefono con l’ammiraglio Patricio Carvajal, cervello del golpe, e gli ordinò di offrire ad Allende un aereo per lasciare il Cile. L’aereo doveva essere abbattuto mentre volava sul mare aperto. «Morta la cagna, liquidati i cuccioli», gli disse Pinochet. Cominciò così un regno che doveva durare più dei 17 anni in cui Pinochet governò da dittatore assoluto. Mentre cercava di «rifondare» la repubblica, ossia di restaurare il capitalismo più brutale, procedeva allo sterminio sistematico degli oppositori. Il numero dei morti, desaparecidos, torturati, gettati vivi in mare o in cave in disuso non si conoscerà mai. Migliaia e migliaia. Alcuni – pochi – assassini e torturatori sono stati processati e condannati. La maggior parte circola per il paese libera e in posti ben remunerati.
I nordamericani tollerarono l’infinità di crimini commessi da Pinochet, eccetto quello contro Orlando Letelier, ucciso nel `76 dalla Dina. Non avevano detto nulla e anzi fatto di tutto per coprire l’assassinio, nei giorni successivi al golpe, del giornalista americano Charles Horman, una storia poi raccontata al cinema in Missing. Ma Letelier era stato assassinato a Washington e per questo Pinochet doveva essere punito. Dieci anni dopo il golpe, gli Usa mandarono l’ambasciatore Harry Barnes con il compito di liquidare con discrezione il dittatore. Le cose più importanti – come l’annientamento dei comunisti e l’imposizione a ferro e fuoco del modello neo-liberista – erano già state fatte e Pinochet era diventato un alleato scomodo ma, soprattutto, superfluo.
Sul piano personale Pinochet ha messo a profitto il tempo come i suoi colleghi dittatori: arricchirsi, acquisire magioni faraoniche, aprire conti in Svizzera e negli Usa, conseguire vari divorzi per la figlia in un paese in cui il divorzio non esisteva. Ma soprattutto assicurarsi l’impunità. La sua sconfitta nel referendum dell’88, da lui stesso convocato, lo allontanò dal governo ma lui si tenne stretto il comando dell’esercito per altri dieci anni e si garantì un seggio vitalizio al senato. Forte di queste certezze osò uscire dal Cile per finire, fra la sorpresa generale, arrestato a Londra, nell’ottobre del ’98, su richiesta del giudice spagnolo Garzon. La battaglia giudiziaria che si scatenò allora sarà ricordata a lungo. Le immagini del dittatore improvvisamente invecchiato, ammalato, aggrappato al bastone mentre passeggiava per la sua dorata prigione britannica fecero piangere le dame pinochettiste di Santiago. Una intransigente – e incredibile – difesa di Pinochet da parte della coalizione di centrosinistra al governo dal 1990 lo riportò dopo 16 mesi in Cile «per essere giudicato nel suo paese». Toccando il suolo cileno si alzò arzillo dalla sedia a rotelle e rispose ben dritto al saluto dei suoi commilitoni. Fu giudicato, mai condannato.
Non è stato e non sarà più condannato in Cile e ogni volta che ha sentito sul collo il fiato della giustizia è scappato all’ospedale militare invocando infermità le più svariate. Era davvero demente? Non poteva davvero essere processato? Chi lo sa. Sta di fatto che è sceso nella tomba con il titolo di ex presidente della repubblica, ex senatore a vita, ex comandante in capo, ex capitano generale a cinque stelle eccetera, oltre che con i nomignoli di Tata, nonno, e Immortal attribuitigli dagli adoratori – ogni giorno di meno. Era scomparso anche dai giornali, occupati tutti i santi giorni per più di vent’anni. Solo il fedele Mercurio si occupava ancora di lui, a volte, per mantenere accesa la fiamma del ricordo: il diabete, la protesi dentaria, le difficoltà a parlare e camminare, le assenze mentali, il pass-by al cuore… I più «rinnovatori» fra i socialisti dicevano che ridursi così era già un castigo sufficiente e che la sua agonia interminabile sembrava quella di Franco. A sinistra, rinnovati o no, non la pensano così: Pinochet non ha ricevuto alcun castigo e ha vegetato in una vecchiaia tutto sommato placida. Passava i giorni davanti alla tv circondato da gorilla, nipoti e bisnipoti, a godersi una fortuna che basterà a garantire una vita di lusso per figli e discendenti vari. Chissà se è arrivato a percepire che, trent’anni dopo, Allende era tornato ad imporsi come la grande figura politica cilena del secolo XX. E lui, Pinochet, era destinato a scomparire come uno dei tanti dittatorucoli dell’America latina.
Adesso che è arrivato il giorno della sua scomparsa definitiva da questa terra non c’è molto da festeggiare. E’ passato troppo tempo. Personalmente, come cilena, e dopo trent’anni in cui ho dovuto scrivere di lui, spero che questa sia l’ultima volta. In definitiva non è stato il primo né l’ultimo codardo, traditore e sadico che ha disonorato l’essere umano e che, finalmente, è crepato.