E’evidente che la famiglia Fiat non intende impegnarsi più sull’automobile, checché auspichi il presidente Ciampi. E da un bel pezzo. La qualità totale di Cesare Romiti non ne ha fatto una Toyota, mentre le conferenze sull’etica di impresa accompagnavano la diversificazione degli investimenti. Con la quale la proprietà metteva le sue uova in altri panieri, ivi compresa l’energia, via via che il restyling della dirigenza non sollecitava più il mercato italiano (meno 13,5 dal 1990 ad oggi) e i profitti cadevano dal 5,9 del 1997 al meno zero del 2001. Con l’attuale piano di risanamento il gruppo confessa l’intenzione di passare da grande produttore a rentier. Forse l’aveva in animo da gran tempo, essendo difficile immaginare altrimenti la cascata di errori commessi, perché il mercato dell’auto – se dovunque tira meno – non è a zero neanche in Italia dove si è semplicemente spostato su altre marche. Quello presentato è dunque un piano di chiusura dell’auto in Fiat, e tale resterà il 5 dicembre quale che sia il (leggero) maquillage che l’azienda regalerà al governo per ottenere la cassa integrazione. Considerando che si è mangiata le altre marche storiche e qualche anno fa è stata aiutata dal governo in carica nell’aggiudicarsi l’Alfa scartando la Ford, la fine della Fiat auto significa la fine dell’auto in Italia.
Non è una tragedia per la proprietà perché il capitale non ha patria, come ci ricordava tempo fa Il Sole 24 ore: lo è per i lavoratori, che sono meno volatili e in grado di posarsi indenni da altre parti. E’ una lunga e tremenda storia quella dei dipendenti Fiat quasi centotrentamila nella sola Torino ancora nei primi anni `80, e via via ridotti fino agli attuali trentamila. Per Arese e Termini Imerese si chiede la mobilità breve o lunga, cioè – a medio termine – l’uscita. Senza la corsa dei diversi governi a svalutazioni e rottamazioni (un modo per portare l’azienda in camera di rianimazione) saremmo a questo punto forse già da un pezzo. Oggi comunque con l’euro non si può svalutare più e la rottamazione si è rivelata un rappezzo. Nulla ha frenato la discesa. E nessuno sembra desideroso di ereditare la nostra ex più grande marca: quale concorrenza si fa viva nella nostra diletta penisola? Dove sono i capitani coraggiosi?
Nel giro di vent’anni non è che siamo passati dalla grande industria fordista al grande sviluppo postfordista – del resto le potenze industriali si guardano bene dal rinunciare alla produzione manifatturiera di base. L’Italia ha dismesso la grande siderurgia su pressione della Ceca, commissione del carbone e dell’acciaio, e i poli siderurgici sono diventati ormai pezzi di archeologia industriale. L’ingegner Carlo De Benedetti, che aveva rilevato nella Olivetti un’informatica di punta, ha lasciato la medesima per imprese finanziarie, per cui Ivrea è oggi un museo un po’ triste della modernità, egregiamente firmata, degli anni Cinquanta; di quella manodopera altamente selezionata sono restati in cinquecento persone a Scarmagno e non fanno certo concorrenza a Bill Gates. La chimica se ne è andata con Gardini e il disastro Ferruzzi. La Fiat se ne sta andando, la famiglia conserverà sì e no la Ferrari, sostenuta da sforzi straordinari dei media per fare dei gran premi uno sport popolare (in mancanza d’altro l’Italia aveva il calcio e ha Schumacher). La meteora Colanninno è passata rapidamente. E sembra che battano il passo anche la Pirelli e i tessili.
Così sfolgoriamo di ricchezze private mentre, per essere la quinta potenza industriale, cala a vista d’occhio la nostra struttura produttiva. L’ultimo lavoro di Giuseppe De Rita, Il regno inerme, conta quattro milioni e ottocentomila imprese, una ogni otto italiani in età da lavoro, che mediamente impegnano cinque persone a testa; si capisce che nel nostro paese la ricerca sia a livelli così bassi e altrettanto l’innovazione di prodotto. La felice eccezione del sommerso e i prodigi del postfordismo ci hanno portato a competere soltanto in moda, scarpe, accessori, occhiali. Questi i brillanti risultati del mercato, della concorrenza e del gene egoistico dell’impresa. Che ricorda inesorabilmente il film di Woody Allen Prendi i soldi e scappa.
Perché di soldi pubblici ce ne sono stati, eccome. Nel momento stesso in cui lo stato, destra e centrosinistra un’anima sola, hanno deciso che nulla era più pernicioso che mettere il naso nell’economia – non s’era visto con Tangentopoli e la corruzione nel settore pubblico? – hanno riversato torrenti di denaro alle imprese perché decollassero e tenessero. Non si usa calcolare l’ammontare del denaro erogato o non ricevuto per agevolazioni su prezzi per ricerca, esportazioni, insediamenti, sgravi, fondi per l’occupazione, cassa integrazione, contratti d’area, etc.. Ma sarebbe interessante. Denaro erogato senza contropartita alcuna. Contemporaneamente lo stato dismetteva proprietà e partecipazioni senza con ciò risanare i suoi bilanci né ridurre il costo o migliorare i servizi per gli utenti. Oggi si libererebbe volentieri dei beni artistici, contabilizzati in nome della finanza creativa. Senonché alle imprese non basta mai, ululano che le tasse sono troppe e il costo del lavoro troppo alto, e non manca loro il sostegno del governatore della Banca d’Italia: avanti con le riforme strutturali, cioè tagliare il costo del lavoro e la previdenza. Vedi il Nordest, affollato, imbottigliato, cementificato e quindi alluvionato, velenoso e leghista.
Si sta imparando qualcosa dal caso Fiat? Non sembra. Sarà tanto se dalla Fiat si riuscirà a strappare qualche sopravvivenza di Termini Imerese a danno di qualche altro segmento, magari Mirafiori. Ma gli ottomila di qua o di là usciranno, perché meno della metà rientrebbe forse nel settembre 2003; si deve offrire alla General Motors una situazione «pulita». E le mozioni della maggioranza e dell’opposizione alla Camera? Quelle delle maggioranza balbettano alla Maroni. La mozione a prima firma Violante cui seguono ds di varia estrazione e Margherita, sembra scritta, salvo il rispetto, in stato confusionale; è prodiga di giudizi su quel che l’impresa doveva fare e di consigli su quel che dovrebbe fare, ma in conclusione invita il governo ad agevolarla ulteriormente e cercare per essa altri capitali, e sia ben chiaro che non siano pubblici. In forma più limpida e succinta, la mozione del Pcdi dà all’azienda quel che le spetta di irresponsabilità, ma conlcude con proposte analoghe. Una sola mozione, quella firmata da Bertinotti – sulla quale sembrano essere confluiti diversi voti diessini che preferiscono non apparire – chiede di finirla con l’erogazione di soldi a vuoto e di acquisire quel che resta della Fiat in una forma di proprietà pubblica. Perché i casi sono due: o un paese non ha interesse a vedere una produzione forte e con le gambe relative, e allora andiamo pure avanti con il valzer delle piccole imprese, gli abbassamenti del costo del lavoro e lo spappolamento della struttura sociale, oppure ha interesse e bisogno di averne una e nel dileguarsi della proprietà assenteista – vecchia parola che un tempo si usava per il latifondo ma oggi sembra calzante, guarda un po’ per l’industria – la Repubblica elabora un progetto industriale serio e vi si impegna anche con i propri mezzi, proprietà o comproprietà.
E’ questa, da tempo, anche la richiesta della Fiom, il sindacato metalmeccanico sapendo bene che il lavoro non cala dal cielo e facendo quel che un governo di centrosinistra avrebbe dovuto fare, afferrare la questione non dal punto di vista del capitale ma da quello del lavoro, difendendo l’occupazione, rifiutando il working poor e la marginalità. Non è solo una questione «sociale», si tratta del volto che avrà il paese. E’ fin stupefacente che nell’Europa del centrosinistra di un progetto di sviluppo e di visione del lavoro vagamente razionale non si sia mai fatto cenno, dopo l’infelice tentativo francese a Malmoe. E non si fa neanche adesso, come rileva Jean-Pierre Fitoussi, che la crisi batte alle porte di tutta la Ue e i lavoratori sono assai nervosi. Non lo disegna il governo, non lo prospetta l’opposizione cosiddetta moderata, non lo dice che Rifondazione comunista. E alquanto tardi. Per non parlare della sinistra radicale, che in questi anni si è mossa come se senza produzione potesse esserci trippa per gatti, cioè salario di cittadinanza.
E non l’avessero mai detto, la Fiom e Rifondazione: lo stato padrone! la vecchia storia! la vecchia ideologia! stiamo al concreto! stiamo al mercato!
Sembra una bestemmia dire che o la sfera pubblica si fa carico di definire con tutti i mezzi una crescita che il mercato non assicura più o si va al declino. E che occorre intervenire anche attraverso la proprietà pubblica, diretta o indiretta. Non si può. Non ce lo consentirebbero. Chi non lo consentirebbe? Nessuno. Non lo vieta il trattato di Maastricht né quello di Amsterdam. E come potrebbero? Lo stato è un soggetto giuridico pieno e ha delle proprietà demaniali, militari, strutture scolastiche e sanitarie e amministrative, etc.: come si potrebbe impedirgli di gestire spezzoni economici che considera strategici? Una sola cosa vieta l’Europa: di detenere una posizione monopolitistica, quella che nell’auto era allegramente concessa alla Fiat. L’Europa non vieta altro. Del resto, sia detto fra parentesi, non vietava neanche la gestione dei servizi pubblici e dei beni pubblici: la liberalizzazione è stata una erogazione del centrosinistra, che non ha concesso al privato – come è sempre stato possibile – di concorrere in sanità e istruzione, ma si è suddiviso questo suo compito con i privati, foraggiandoli di denaro pubblico, e quindi foraggiandone i profitti che sono nella loro natura. Il Bossi e la sua devolution stanno passando da questo varco.
Nulla insomma se non una pregiudiziale politica, come si dice adesso una «ideologia», impedisce che di fronte alla catastrofe dell’industria automobilistica italiana, lo stato diventi proprietario o comproprietario. Non ci si nasconda dietro all’Europa, della quale quasi nessuno sa niente ma cui si imputa di tutto. E neppure dietro ai bilanci, considerando quanto sono costate le agevolazioni a vuoto e quanto costeranno le conseguenze sociali che verranno dalla cessazione dell’automobile. Resta, Tangentopoli insegna, la necessità di ordinare più seriamente l’intervento pubblico. E pazienza se Mario Monti non sarà d’accordo.
Il caso Fiat fa venire alla luce il vero detonatore dell’Ulivo. Appena raggiunto l’euro, esso ha rinunciato a qualsiasi ruolo del politico nell’economico, che significa rinunciare a svolgere qualsiasi ruolo sulla natura della società, sulla difesa del tenore di vita, sulle aspettative. L’ha letteralmente lasciata al mercato. E’ stato chiaro da quando sia D’Alema sia Prodi rifiutarono di passare dalla fase dei sacrifici per entrare nella moneta unica, a una lumeggiata fase due, quella dello sviluppo. Si ricorderà che la crisi di governo esplose perché questo rifiutò di utilizzare i cinquantamila lavoratori per lavori socialmente utili, che si sarebbero potuti formare se non altro per quel risanamento idrogeologico che il privato non affronterà mai, per cui ogni alluvione ci costa vagonate di miliardi. Ma è solo un esempio. E’ avvenuto lo stesso quando si trattava, dato che di Fiat stiamo parlando, di dare un diverso indirizzo ai trasporti, spostando il peso eccessivo della strada sulla rotaia e disinquinando l’auto: il centrosinistra ha privatizzato e basta. Tutta la sinistra europea si è defilata dal problema del come e che cosa e a quale fine produrre. Risultato: la crescita sarà – nella migliore delle ipotesi – del 2,5 soltanto nel 2005. Ma potrebbe anche non arrivare a questo livello, e si sa che con meno del 3 per cento non si muove foglia nell’aumento dell’occupazione, e i nuovi posti di lavoro sono o sostitutivi o al di sotto dei livelli di sussistenza, come nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
Il liberismo ha fatto danni dovunque, con gli effetti politici che si sanno. In Italia ha avuto l’effetto di un tifone. Chissà che avesse ragione Amendola, lo scrivo con la morte nel cuore: eravamo e restiamo un capitalismo straccione. Al quale affidarsi è irresponsabile. Tanto varrebbe rivolgersi a padre Pio.