Gino Covili è un pittore che meriterebbe una fama maggiore di quella di cui gode. E’ venuto a mancare un anno fa, a 87 anni. Si è spento nel suo paese natale, Pavullo, sui monti modenesi del Frignano. E la sua carriera di artista l’ha spesa interamente a raccontare la gente, il mondo contadino, la natura, gli animali, la fatica, la povertà e le lotte, la Resistenza, le religioni e i miti che furono parte integrante della sua esistenza. L’ha spesa, insomma, per narrare la vita di quella parte del mondo, di natura e di umanità che la sorte gli ha fatto incontrare.
Covili era parte di quel mondo. Lo riproduceva, quindi, osservandolo dal di dentro, con la semplicità dell’autodidatta. Ma stenteremmo a dire del naif. Non perché dell’arte cosiddetta naive, dal Doganiere Rousseau in poi, nutriamo una “considerazione minore” rispetto a quella cosiddetta “alta”. Ma perché Covili, pur di origini umili (faceva il bidello), ha saputo coniugare una genuinità incontaminata a una sapienza grafica e coloristica, a una cultura (in qualche modo acquisita) che lo hanno reso un grande pittore popolare. Capace di parlare a tutti, colti ed incolti. Di farlo, portando dentro la sua fatica la cifra di una originalità visionaria e sognante che ne hanno fatto e ne fanno un vero artista.
La pittura, quella vera, infatti, non si nutre della rappresentazione minuziosa di verità banali fisiche e ambientali ma, piuttosto, delle possibilità di cogliere quelle profonde (di verità) per via di dedizione amorosa, per via di scavo della morfologia delle figure e delle cose, capace di penetrarne la superficie fenomenica, per giungere all’essenza noumenica di esse.
Ecco perché i personaggi di Covili – siano partigiani armati di mitra, impiccati dai nazifascisti, contadini, cavalieri, suonatori di ocarina o di organetto, vecchi ubriachi e donne che allattano, potatori, urlanti, umili, esclusi o santi – sono ciclopi con piedi e mani enormi. Piedi grandi per stare fermi, inchiodati sulla terra, e sopportare il vento gelido dell’inverno e quello mortifero delle carestie. Mani grandi per lavorare la terra, contendere alla natura quel che serve per vivere, pregare Dio e i santi fuori delle chiese e, quando occorre, e proprio non se ne può fare a meno, battersi per salvare le condizioni del decoro e della dignità contro chi le insidia.
Mani grandi e grandi piedi rispetto ai volti, quasi sempre solcati da rughe profonde, incorniciati da lunghe dita nodose a sostenere il peso dei pensieri di fame e di lavoro, di sopraffazione, o strette ad impugnare gi strumenti del lavoro o della resistenza armata. Tagli prospettici arditi a spingersi lungo le diagonali di scenari, ora eroici ora domestici, sempre però debitori di un’idea epica dell’esistere. Personaggi omerici di terra, figure monumentali scelte per sopravvivere. Vien da pensare che i fragili e gli astenici siano caduti per darwiniana, crudelissima necessità. E che tutto si fondi su una legge di natura, sulla quale la vita contadina è andata rifornendo di senso (durissimo senso) sè stessa e le sue insopprimibili ingiustizie. La legge del più forte, però, non sembra convincere Covili. Non per caso i volti dei suoi protagonisti e, persino, gli occhi dei suoi animali (umanizzati) mai sono sereni ed appagati.
Così come la superficie dei suoi dipinti non conosce riposo. Orror vacui, vero e proprio panico per il vuoto, per il non-segno e il non-colore. Antiminimalismo visionario. Neoespressionismo, neobarocco, ridondanza emotiva, qualche cedimento illustrativo. Uno scenario insomma che sembra declinare le regole di un impegno espliciti: pittorico, etico, politico, religioso. Dalla parte dei povericristi, vicino al dio degli ultimi, al cristianesimo delle origini, alla “follia” di San Francesco.
Fiammingo nella cura dei particolari, affine a un muralista messicano alla Siqueiros o alla Rivera per la coralità e il “senso pubblico” degli eventi narrati, visionario rifornito di una ispirazione naturalmente lisergica, surrealista malgrado se stesso e il suo attaccamento alla carne e al fuoco, parente artistico di Ligabue ma anche profondamente diverso da lui nella consapevolezza complessiva della sua concezione del mondo e nella capacità di conciliare primitivismo, spontaneità e cultura iconografica alta. Insomma Gino Covili non è uno dei tanti. Ma uno di cui si dovrebbe parlare a scuola, in ogni scuola, e fuori.
Per questi motivi non si può non salutare con soddisfazione la grande mostra che lo ricorda a un anno dalla morte. L’esposizione (per la cura di Andrea Emiliani e Maria Teresa Orengo, in calendario sino al 2 luglio) si articola in due sedi, per un totale di 159 opere, tra le sale del Foro Boario di Modena e il Castello di Montecuccoli. Qui sono esposte le opere di un intero ciclo dedicato dal pittore al proprio paese natale, acquistate nel ’98 dal Comune di Pavullo, nel Frignano.