Claudio Cianca è un signore di 92 anni. Antifascista, incarcerato nel 1933 per una «bomba dimostrativa» (e inoffensiva) piazzata nel pronao della Basilica di San Pietro, incarcerato fino al 9 settembre 1943 («l’ultimo ad uscire», scrisse Giorgio Amendola in Una scelta di vita), partigiano di Giustizia e Libertà, poi delle Brigate Garibaldi. Nel dopoguerra è sindacalista, consigliere comunale di Roma, deputato del Pci. In definitiva un pezzo di storia del ’900, della città di Roma, dei sindacati.
Nel calendario celebrativo del centenario Cgil, Cianca è l’illustrazione del mese di luglio. Indice puntato alla folla dei lavoratori edili riuniti in piazza San Giovanni, li arringa da sopra un palco. È il luglio del 1955. Al tempo è il segretario cittadino della Fillea, la Cgil dei lavoratori delle costruzioni, «dei vetrai, dei marmisti, dei fornaciai»: 30mila iscritti solo a Roma dove gli edili sono una delle maggiori categorie produttive, assieme ai panificatori e ai tipografi (i più colti perchè sanno leggere e scrivere). La città, racconta, «non dovendo essere offuscata dai fumi delle fabbriche, aveva fatto delle costruzioni la sua maggiore industria».
Claudio Cianca oggi è anche un filmato di tre ore. Una videointervista di storia a inquadratura fissa che l’archivio storico «Manuela Mezzelani» della Cgil di Roma e del Lazio ha raccolto in due sedute nel mese di novembre 2005. «È ancora da tagliare e montare», spiega il responsabile, dell’archivio e dell’intervista, Giuseppe Sircana. Sarà completa tra qualche settimana. Anche allo stato grezzo, con le sue pause e qualche colpo di tosse, l’immagine che Cianca trasmette è nitida. I ricordi chiari, lucidi, dettagliati. Racconta di suo padre Renato: «Lavorava per l’Ente Edilizia Nazionale che dipendeva dal ministero dei Lavori Pubblici. Andava dove erano accaduti dei terremoti». Nel 1915 Renato Cianca si traferisce con la famiglia ad Avezzano, in Abruzzo, dove all’inizio dell’anno un violentissimo sisma (il maggiore del secolo passato dopo quello di Messina) aveva quasi raso al suolo la città mietendo 33mila vittime. Anche durante la guerra mondiale ad Avezzano si continuava a scavare e a ricostruire. Fu in quegli anni che il piccolo Claudio ebbe per la prima volta visione di cosa fosse la guerra. «Vedevo delle persone vestite in modo diverso – racconta – e chiesi a mia madre chi fossero». Erano i prigionieri della grande guerra, austriaci e ungheresi. Erano addetti alla rimozione delle macerie. «Erano poveri. Mia madre, quando poteva, gli dava una mezza pagnotta». I Cianca si trasferiscono da Avezzano qualche tempo dopo. Un terremoto a Santa Sofia di Romagna li porta nella terra dove il nascente movimento fascista sta mettendo le prime radici. Renato Cianca si lega ad amicizia con l’avvocato Nanni, socialista. Una mattina, verso la fine dell’ottobre del 1922 «non c’era scuola, e noi bambini eravamo scesi nella piazza del paese. Degli strani personaggi a cavallo con un buffo berretto (il fez), una pistola infilata nella cintola e il moschetto passano per la piazza». Un ragazzino gli chiede chi siano. «Non lo sapete? Oggi c’è la “marcia su Roma”, fa quello. Andiamo a mettere a posto i “sovversivi”». Chi sono i sovversivi? Domanda il ragazzo. «Quelli che non amano la Patria», risponde il signore a cavallo. «E il ragazzetto – ricorda Cianca – che era anche bello sveglio, domandò ancora: “Ma per quelli non bastano i carabinieri?”». La risposta dell’uomo a cavallo è l’inzio dell’epoca buia: «No, ci vogliamo noi fascisti». L’arroganza dei nuovi arrivati, le aggressioni e le provocazioni che gli abitanti di Santa Sofia sono costretti a subire, da subito portano il piccolo Claudio su posizioni di «ribellione».
La pellicola scorre. Il signore in giacca e cravatta parla. «A Santa Sofia esisteva una grande filanda dove lavoravano soprattutto donne. A cavallo tra il 1922 e il 1923 le lavoratrici entrarono in agitazione. Gli operai picchettavano gli ingressi. Ci fu anche un comizio dove parlarono alcuni deputati socialisti, l’avvocato Nanni e mio padre». Pochi giorni dopo un gruppo di una cinquantina di fascisti, provenienti dai paesi vicini, «da Faenza e dalla zona di Forlì, bastonò i cittadini e gli operai presenti sulla piazza. Un ragazzo da sopra un balcone che dava sulla piazza iniziò ad urlare: “Prepotenti! Delinquenti!”. Quelli andarono su e lo portarono nella piazza. Era handicappato. Volevano dargli l’olio di ricino. Una sua sorella li pregò di non farlo, gli disse che lo avrebbero ucciso. Allora loro decisero di dare l’olio di ricino anche a lei, nella stessa quantità». La telecamera continua a girare. «Pochi giorni dopo mio padre tornò a casa tutto gonfio, che grondava sangue dal viso e dalle labbra. Gli chiesi cosa era successo. Lui corse in bagno, accudito da mia madre». I fascisti l’avevano picchiato per punirlo del comizio dei giorni precedenti. Negli anni successivi i Cianca si spostarono. A Castelnuovo di Garfagnana prima («una città amorfa che non stava né con i fascisti né contro»), a Massa Carrara poi. Infine a Roma, dove da pochi mesi si era consumato il rapimento del deputato Giacomo Matteotti. A Roma vive lo zio di Claudio, Alberto Cianca, direttore del giornale Il Mondo, il foglio liberaldemocratico fondato da Giovanni Amendola. Alberto Cianca abita in via dei Portoghesi, in quello che a Roma è conosciuto come «il palazzo della scimmia», per via, racconta Claudio sorridendo, di quella scimmia che un giorno prese un neonato e lo portò fin sopra il tetto, restituendolo poi ai genitori accorsi preoccupati sulla sommità dello stabile. Nel 1926, dopo l’attentato di Bologna a Mussolini e il conseguente avvitamento delle poche libertà democratiche ancora in vita, i Cianca subiscono una vera e propria persecuzione. Poche sere dopo quel giorno di ottobre una squadraccia fascista forzò la porta di via dei Portoghesi e, non trovando Alberto (che era stato fatto scappare da un ingresso secondario, riparerà poi in Francia), distrussero la casa «gettando anche i mobili da sopra al terrazzo, mentre un gruppo di fascisti applaudiva». Arrivarono anche i carabinieri quella sera. Alle rimostranze della famiglia sul ritardo dell’intervento, il responsabile delle forze dell’ordine rispose che avevano fatto bene. «Quelli non erano delinquenti, disse a mia zia, ma patrioti che se la prendevano con chi eccitava all’odio contro il duce».
Nel 1926 Renato Cianca viene licenziato dal ministero perché fratello di Alberto. La mamma di Claudio, che è il secondo di quattro figli, va a lavorare come commessa in un grande magazzino di piazza Cola di Rienzo. Il padre si arrangia con piccoli lavori. Claudio deve lasciare gli studi. Lavora prima come vetrinista in un negozio di tessuti di seta in via Nazionale. Poi frequenta un corso da elettrotecnico e si mette a fare l’elettricista. Nel 1933 confezione la bomba dimostrativa per il Vaticano. «Non doveva fare danni – spiega alla telecamera – Per questo non la costruii con il ferro che, esplodendo, avrebbe creato dei proiettili, ma con l’ottone che si deformava ma restava compatto». Assieme al padre e all’amico Bucciglioni, ideatore con lui dell’operazione, finisce in carcere. Dieci anni, fino al 9 settembre. Nel carcere di Civitavecchia sono 200 i prigionieri politici. Assieme a lui ci sono tra gli altri Antonio Pesenti, Aldo Natoli, Leone Ginzburg, Pietro Amendola. Nel maggio del 1943, durante l’ora d’aria («che di solito si riduceva a 35 minuti, mezz’ora», sorride) «ero insieme a Sandri Faustino. Il cielo era sereno, limpido. Vidi come una nuvola nera nel cielo. Dissi: “Fausto guarda”, e mentre lo dicevo da quella nuvola nera vedemmo uscire dei lampi, e sentimmo il rumore delle bombe che cadevano». Il bombardamento di Civitavecchia li costrinse a trasferirsi a San Gimignano. Il viaggio in treno fino a Poggibonsi dura dieci ore. «Incatenati gli uni agli altri, dentro le macerie, vedevamo i disastri della guerra». Pochi mesi dopo Claudio Cianca esce dal carcere, in un Paese che ancora non ha chiaro chi siano gli alleati e chi i nemici. In viaggio verso Roma assieme ad una truppa di disertori che tornano a casa, con la complicità di una signora riesce ad evitare dentro la toilette delle donne di una stazione ferroviaria un rastrellamento da parte dei tedeschi.
È finalmente a Roma. Il 4 giugno 1944, giorno della Liberazione della città. Era il tempo, ancora, in cui «le donne facevano la distribuzione clandestina dell’Unità. La tenevano nelle borse, sotto l’insalata». Nel giugno del 1944 Cianca, incaricato di ricostituire i sindacati democratici, entra con un gruppo di «compagni armati nella sede dei sindacati fascisti di piazza Esquilino. C’era addirittura qualcuno che pensava di continuare la propria attività. Noi gli facemmo capire che non era il caso», sorride. La città andava ricostruita, la macchina industriale andava riconvertita ad un’economia di pace, i soldati tornavano dal fronte poveri. Le braccia erano tante. In tutta Italia, racconta alla telecamera, nacquero «i cantieri della Regina». Si costruirono molto lentamente perché gli operai erano pagati a giornata, le strade distrutte. Nel ’46, davanti al Viminale, gli operai protestano per la chiusura di questi cantieri. La polizia sparò. Ci furono 4 morti. La telecamera continua a girare, mentre Claudio Cianca racconta dei «comizi volanti», improvvisati, con gli operai che escono dal cantiere (proprietà privata) e la polizia che ne presidia l’ingresso, come da foto. Racconta del sacco di Roma, della legge Sullo, della storia d’Italia di cui è, fino in fondo, una parte.