Possibile che una comunità locale riesca a vincere contro una superpotenza che ha occupato il territorio con una base militare? A Vieques, isola di Portorico, ce l’hanno fatta. Nel 2003, dopo 63 anni di esperimenti militari, la popolazione ha avuto la meglio sul corpo più potente degli Stati uniti: l’Us Navy. Che se n’è andata, dopo che per un anno i viequesi a turno hanno occupato i terreni di impatto delle esercitazioni militari, sfidando agente orange, uranio, prigione. Myrna Pagan, del movimento Viequesì, spiega che la lotta non è finita: «Comincia la seconda fase, la richiesta di bonifica e compensazione. I terreni sono altamente inquinati, la nostra popolazione registra livelli di cancro ben più alti del resto dell’isola, i nostri ragazzi si ammalano due volte più degli altri. Devono pagare e decontaminare». In Brasile è stato il governo Lula a non rinnovare la concessione della base di Alcantara, dopo che il regalo fatto agli Usa dal governo Cardoso nel 2000 aveva suscitato tante proteste da parte soprattutto degli afrobrasiliani. Ma la lotta non è ancora finita. Cercano una nave per andare a riprendere possesso della loro isola. Da oltre 30 anni duemila chagossiani lottano per ritornare sulla loro isola, Diego Garcia, nell’arcipelago Chagos, stato delle Mauritius. L’isola fu rubata dall’allora potenza coloniale e poi regalata agli Usa sotto forma di base militare, una delle più grandi del mondo: da lì sono partiti i B52 contro l’Iraq e l’Afghanistan. Per questo, poco per volta, i chagossiani furono estromessi dalle loro case (con metodi terroristici, ad esempio gassando 1.600 cani di fronte ai loro occhi), gli alberi furono tagliati, la bellezza dell’isola deturpata dalle costruzioni per i soldati occupanti, il mare inquinato da sottomarini nucleari. Dopo tanti anni, nel 2000 per la prima volta una corte inglese ha riconosciuto loro il diritto al ritorno, ma non così il governo inglese. E nel 2003 hanno perso un altro processo. Ma intendono ricorrere ancora, anche presso tribunali Usa, per i danni arrecati all’isola dalla base.
Le donne sono in prima linea nella resistenza. Del resto, fu soprattutto un movimento di donne quello che decenni fa riuscì a far chiudere in Gran Bretagna la base di Greenham Common. Nelle Filippine, nel 1992 fu chiusa la base statunitense di Olongapo, famigerata anche per l’economia della prostituzione che aveva innescato. La lotta popolare per la chiusura non fu facile, spiega l’attivista filippina Corazon Valdez, perché il sindaco si opponeva con tutte le sue forze, ma i metodi violenti che usava contribuirono a far crescere la protesta. Alla fine il disastro economico non ci fu, ma anche perché molti lavoratori furono impiegati presso altre basi; insomma, dice Cora, avevamo ben agito per la chiusura ma non siamo stati capaci di proporre la conversione. In Corea, le proteste popolari per i frequenti delitti commessi dai militari di stanza nelle basi hanno spinto il governo quantomeno a inserire un memorandum sulla protezione ambientale nel Sofa (Status of overseas forces agreement), l’accordo intergovernativo che regola l’uso delle basi. E perfino negli Usa l’azione popolare ha contribuito a far chiudere le basi nella baia di San Francisco.
Da queste esperienze e da molte altre – anche quelle, più numerose, non ancora vincenti – è nata a Mumbai la rete internazionale «No alle basi Usa», sottotitolo «Chiudiamo le basi militari nel mondo» così da comprendere in Europa le strutture della Nato e a Cipro quelle britanniche. Ma il focus e denominatore comune della rete sarà la lotta per rimpatriare le basi a stelle e strisce, le più pericolose per l’incolumità del pianeta e dei suoi abitanti, onnipresenti e funzionali a un’egemonia militare che «continua a crescere come un cancro nel globo» (parole di un attivista coreano), e che però paradossalmente potrebbe anche avere un effetto letale di sovraesposizione strategica e insostenibilità economica. Joseph Gerson, quacchero statunitense, ha scritto anni fa il libro di riferimento in materia, intitolato «Sun never rise» («Dove non tramonta mai il sole») a significare una presenza che domina le terre emerse ma anche i mari e i cieli.
La rete – che sta costruendo un sito web – si propone di rafforzare le lotte locali e nazionali già in corso, con azioni comuni (come una giornata mondiale di mobilitazione), il sostegno reciproco e lo studio di ipotesi di riconversione. «Bersaglio» principale, secondo Shaib Khan, giovane indiano esperto di strategie militari, dovrebbero essere i governi locali, che «devono liberarsi dalla paura che se non concedono basi agli Usa saranno attaccati». Una parte importante della lotta deve riguardare la punizione dei colpevoli di misfatti (Cermis docet) e i risarcimenti danni: perché non succeda più come in Corea che un uomo ridotto a tronco senza arti riceva in totale 500 dollari. C’è molto da fare anche per i pacifisti statunitensi: devono informare una popolazione che non sa a quante spese e a quanta ostilità internazionali il governo la espone in questo modo. E ovviamente c’è molto da fare in Italia, un paese ad alta densità di basi operative (dalla Maddalena a Camp Darby).