Miroslav è un uomo serbo che, entrato nel nostro Paese, si è appellato, secondo quanto prevedono le convenzioni internazionali e la Costituzione italiana, al diritto di asilo politico. Nel suo paese è un disertore perché si è rifiutato di imbracciare le armi ed è fuggito dalla violenza della guerra. La sua compagna, Dusica, è ricoverata in fin di vita nel reparto di pneumologia dell’Ospedale di Sondalo (Sondrio). Vive con il terrore di essere espulso prima di poterla, forse per l’ultima volta, abbracciare. Armadn e Malkoc, croati, chiedono invece di essere espulsi e rimpatriati al più presto: non possono sopportare l’idea di sopravvivere, come animali, altri quaranta giorni in gabbia. Fouad, di origine tunisina, è tossicodipendente e supplica di venire trasferito in una comunità di recupero. Ripete ossessivamente che la sua vita è rovinata e che preferirebbe morire piuttosto che continuare a stare nel Centro di Permanenza Temporanea di Bologna.
Sono questi ed altri simili a loro i racconti che ascoltiamo durante la visita fatta lo scorso 1 dicembre, insieme ad Alberto Burgio e al segretario del Prc di Bologna Tiziano Loreti, all’ex caserma di via Mattei. Racconti di sofferenza, disperazione, storie di donne e uomini fuggiti da luoghi martoriati dalle guerre e desertificati dalla miseria. Partiti da quelle terre con la speranza di trovare in Italia un lavoro e quindi una condizione dignitosa per se stessi e per i propri familiari, si trovano reclusi in strutture aberranti. Donne e uomini sono privati della propria libertà pur non avendo commesso alcun tipo di reato.
A Bologna sono in 17 donne e 50 uomini, detenuti in una struttura recintata, anche sopra le proprie teste, da sbarre e grate, derubati addirittura della possibilità di vedere il cielo aperto. Sbarre e grate che, sovrapponendosi, permettono all’occhio soltanto di intravedere un campo da calcio che appartiene al Centro ma è inutilizzabile per mancanza di fondi per la vigilanza. Per molti degli «ospiti» – come sono definiti con involontaria ironia – rappresenta solo l’ennesima illusione e l’ultima beffa. Il loro movimento è costretto in poche decine di metri quadrati: una stanza in cinque, un bagno comune, uno spazio non murato ma delimitato dalla vergogna delle grate. Le lenzuola di carta vengono cambiate quando sono ormai ridotte a brandelli, ogni venti giorni; la biancheria ed i vestiti sono gli stessi per intere settimane. Quando giungiamo al Centro un ragazzo viene trasportato con un’autoambulanza all’Ospedale Maggiore dopo avere ingerito due accendini e quattro pile: è l’ultimo di una lunga serie di atti di autolesionismo, perché solo l’autolesionismo – ed una visita ad uno degli ospedali pubblici di Bologna – può essere un viatico per la fuga.
Dal momento che questi fatti non possono essere considerati eccezionali rispetto al quadro dei 13 Cpt presenti in Italia, non ci resta che trarne considerazioni stringenti ed impegnative.
In primo luogo un dato di fatto: questi centri sono luoghi non riformabili. I progetti di sostegno psicologico e di ricreazione posti in essere con grande generosità dai volontari delle associazioni che collaborano con le strutture di gestione dei centri tentano di rendere dignitosa ed umana una realtà che costitutivamente non lo è. Una «discarica di materiale umano» (non persone portatrici di diritti inalienabili) in attesa di essere espulso dal nostro Paese è un luogo privo di qualsiasi umanità e di qualsiasi dignità. Una realtà che, in sé, costituisce un enorme buco nero nella nostra democrazia e nel nostro Stato di diritto, precisamente per due ragioni: perché viola l’habeas corpus e quindi la garanzia del godimento della libertà personale in assenza di reati accertati dalla giurisdizione e perché funge da contesto a quella aberrazione giuridica che è la detenzione amministrativa – cioè la corrispondenza tra violazione amministrativa e sanzione carceraria – in assenza di un sistema minimo di tutele e controlli presente invece nella detenzione penitenziaria.
In secondo luogo, una constatazione di ordine politico: la chiusura dei Cpt è, di per sé, una battaglia di civiltà, ma implica una riscrittura complessiva della legislazione sull’immigrazione. Non basta quindi cancellare al più presto la legge Bossi-Fini che, come è noto, vincola, sul piano legislativo, la possibilità che un immigrato circoli sul territorio nazionale al possesso di un contratto di lavoro. Non è sufficiente, quindi, rimuovere una legge che è l’esplicitazione di quella concezione razzista che riduce i migranti a mera forza-lavoro, da inserire o espellere a seconda delle esigenze capricciose del mercato e del modello economico neo-liberista. Oltre ad abrogare la Bossi-Fini, occorre ripensare alla radice il Testo Unico sull’Immigrazione così come venne concepito da Turco e Napolitano nel 1998 e alla cui struttura portante si è attenuto il centro-destra, inasprendo condizioni repressive già presenti nella legge varata dal governo D’Alema. Non possiamo accontentarci di allungare la durata di validità del permesso di soggiorno, di diminuire i tempi di attesa o di abbreviare il periodo di detenzione per gli immigrati non regolari. E’ urgente rivedere criticamente l’intero impianto della Turco-Napolitano, non fosse altro che per un motivo semplice: i Centri di permanenza temporanea nascono proprio con la legge 40 del 1998.
L’urgenza di un nuovo quadro normativo sull’immigrazione nasce da qui. È tempo che si affermino politiche migratorie fondate sull’accoglienza, che si costruiscano e perfezionino nuovi canali di ingresso legale, a partire dalla valorizzazione di istituti come il permesso per la ricerca del lavoro e il ricongiungimento familiare, ed è anche tempo, finalmente, di una legge nazionale che garantisca il diritto d’asilo. È tempo, ancora, che si proceda speditamente ad una riforma della cittadinanza fondata sullo ius soli (sul riconoscimento della cittadinanza per tutti coloro i quali nascono sul territorio dello Stato, indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori).
La necessità di riscrivere la legislazione italiana sull’immigrazione allude però ad un dato culturale profondo e di grave contraddittorietà: la società italiana da un lato evolve oggettivamente verso la multiculturalità ed il meticciato e dall’altro contrappone, a questo elemento obiettivo, reazioni spesso di diffidenza o di rifiuto. Anche su questo terreno il centro-sinistra è chiamato ad esprimersi e ad intervenire conseguentemente. Sui Cpt il Programma dell’Unione si impegna per il loro «superamento». Il ministro dell’Interno Giuliano Amato, che ha più volte ribadito di «sentire il dovere», dal momento che «non è possibile farne a meno, di migliorare quelle strutture», deve ricordarselo. Noi pensiamo che i Cpt vadano cancellati. Un paese che si vuol civile non può tollerare una simile vergogna.