Chiudere i cpt? Forse sì, anzi no

Più che un tavolo programmatico è stato un Risiko, fatto di strategie attentamente studiate, distanze misurate, alleanze e gruppi di pressione, perché l’argomento è di quelli di punta nelle campagne elettorali dei giorni nostri: l’immigrazione. Il risultato è un documento corposo e articolato, di cui bisogna soppesare ogni parola, leggere tra le righe e soprattutto incrociare le dita. L’impianto complessivo è persino avanzato, ma sui nodi più scottanti – quelli su cui, in pratica, si giocherà la faccia il centrosinistra – le differenze tra i partiti dell’Unione si sentono. E ora, consegnato in perfetto orario il documento, secondo lo stile di estrema correttezza tenuto dalla coordinatrice del tavolo Ida Dentamaro (Udeur), tutti sono lì con il patema d’animo ad aspettare l’ultima parola di Romano Prodi. Se si sposta anche solo una virgola, quello che potrebbe essere un compromesso accettabile per le forze dell’Unione rischia di diventare un boccone indigeribile. Manco a dirlo, il primo nodo sono i centri di permanenza temporanea. La questione dei cpt è talmente complicata che, per assurdo, nel documento uscito dal tavolo sulla giustizia c’è scritto senza troppo clamore «abolire i centri di permanenza temporanea». A quello sull’immigrazione, invece, il dibattito è stato estenuante. Alla fine, la formula per dire che alcuni partiti (Prc, Verdi, Pdci) li vogliono chiudere mentre altri (Margherita e Ds) li ritengono un male necessario è la seguente: «L’attuazione dell’insieme di queste norme comporta il superamento dei Centri di permanenza temporanea». Le norme che potrebbero permettere il «superamento» sono di due tipi. Da una parte nuove modalità di rimpatrio: «misure di sorveglianza» laddove il trattenimento «non sia necessario»; espulsioni «graduate» a seconda della situazione personale (legami familiari, anni di residenza); «sanzioni limitate e meccanismi premiali» per chi collabora. Ci sono poi gli interventi a monte, quelli che mirano ad allargare le maglie degli ingressi. Alcune misure richiamano i cavalli di battaglia di associazioni e sindacati: si parla di introdurre il permesso annuale per ricerca di lavoro («da rilasciare su precise garanzie economiche») e addirittura di «istituire un meccanismo di regolarizzazione permanente ad personam».

L’altra grande questione che ha infuocato gli animi dei partecipanti è quella delle quote. Per la «sinistra radicale» stabilire a priori quanti immigrati devono entrare nel paese è una misura inutile e dannosa. La sinistra «riformista» su questo punto ha invece rispolverato un antiliberismo d’antan: se non si stabiliscono delle quote si finisce per lasciare tutto nelle mani del mercato. Soluzione: i flussi saranno programmati su base triennale, ma saranno «flessibili» e «integrabili». E, soprattutto, saranno «rapportati alla realtà del fenomeno per come registrato nel tempo». Si parla di quote molto alte, fino a 300 mila persone all’anno.

Questa la parte più spinosa del programma. Poi vengono le cose su cui tutti sono d’accordo, ma non per questo scontate: riforma della legge sulla cittadinanza con l’introduzione dello ius soli, diritto di voto alle amministrative (dopo un «congruo numero» di anni di residenza), legge sul diritto d’asilo «in attuazione dell’articolo 10 della Costituzione» e che dovrà prevedere il divieto di espellere chi fa ricorso. Il tutto inquadrato in un «ribaltamento di prospettiva» che parte dall’abrogazione della Bossi-Fini per «ripartire da zero» secondo le tre parole d’ordine «governare, accogliere, costruire convivenza». Sempre che sia possibile convivere sotto il tetto dell’Unione.