Chi vuole i Mangusta?

Inizia male il dopo voto in Senato sull’Afghanistan. Abbiamo apprezzato il senso di responsabilità dell’Udc di Casini che si è distaccato dalla scelta irresponsabile della Cdl contribuendo a costruire una maggioranza più solida in grado di rispettare gli impegni presi all’estero.

Innanzitutto Libano e Balcani: due fronti caldi rilevantissimi per l’equilibrio di due aree strategiche che premono sull’Europa sia dal punto di vista economico che sul versante umanitario.

Resta ancora aperto il nodo Kabul: la guerra comincia ad avvitarsi su se stessa e la sovranità del governo Karzai viene costantemente messa in discussione dall’urto armato dei signori della guerra, interessati più ad un tornaconto di potere che ad un effettiva democratizzazione del paese. La coltivazione dell’oppio, poi, ritorna ad essere la risorsa economica principalmente esigibile per la popolazione, mentre i talebani riprendono terreno e sono pronti a sferrare un attacco già a primavera inoltrata. Infine il Pakistan non la finisce di tentennare: con una mano consegna i talebani a Karzai, con l’altra chiude un occhio dinanzi alla guerriglia. Nel frattempo il mullah Dadullah minaccia di schierare migliaia di kamikaze contro i militari stranieri, e gli episodi di scontri armati tra gli insorgenti e le truppe Nato si moltiplicano.

Si può parlare di pantano afgano? Oppure è possibile immaginare di perseverare in un’analisi minimalista che continua a definire questa guerra esclusivamente come la risposta naturale all’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001?

Ieri (lunedì), il Consiglio supremo della Difesa ha deciso di rafforzare la strumentazione bellica a disposizione del contingente italiano ad Herat: saranno inviati cinque elicotteri Mangusta e diversi cingolati d’offesa, i quali andranno ad unirsi agli equipagiamenti (vedi Predator) già presenti sul campo. Nei fatti si risponde alla richiesta di rafforzamento delle truppe avanzata dal centrodestra. Di sicuro, non ci troviamo di fronte ad un cambiamento delle regole di ingaggio – che vanno discusse in sede internazionale -, ma di un salto di qualità oggettivo della strategia e delle presenza italiana in Afghanistan, questo si. Non vorremmo che tra qualche mese ci trovassimo a discutere non di più di una missione di pace, ma di qualcosa che si avvicina sempre di più ad una deterrenza militare del conflitto. Gli Usa si apprestano forse a sferrare un attacco definitivo? E le seconde linee italiane ne sono al corrente e consenzienti? Non c’è dubbio che uno scenario così delineato potrebbe avere perfino degli effetti sulla tenuta dello schieramento di governo.

Nei prossimi mesi il quadro potrebbe evolvere e le lancette del conflitto impazzire improvvisamente, perciò una risposta a questa accelerazione resta la proposta avanzata dall’Italia di una Conferenza di Pace, come esclusiva bussola diplomatica nel martoriato campo afghano. Purtroppo, come sempre nel nostro paese, i benpensanti guardano più al dito che alla luna: rispetto ad un disegno di tale portata, si sono avventurati in una polemica strumentale sulla presenza o meno dei talebani al tavolo del confronto. Questo, per altro, nel pieno della trattativa per ottenere la liberazione di Mastrogiacomo.
A parte che la stessa Spd tedesca (non un partito della sinistra radicale) ha formulato una proposta più o meno simile a quella di Fassino, ma anche in alcuni settori più avvertiti dell’amministrazione americana comincia a farsi avanti la necessità di agevolare il processo di stabilizzazione a Kabul. Anche perchè questi ultimi di fronte alla ormai evidente disfatta irachena non potrebbero permettersene una seconda proprio sul campo dove hanno già fallito inglesi e russi.