Chi vede rosso se si parla di Mao

Domenica scorsa su Repubblica Filippo Ceccarelli in modi urbani (Rossanda pone dei problemi), lunedì sul Corriere della Sera Pierluigi Battista in modi inurbani (è un patetico rottame) se la prendono per quel che ho scritto su Mao.
Tutti e due attribuiscono spensieratamente a me la definizione del Partito comunista cinese attuale: Mao ha fatto bene per il 70%, male per il 30, accusandomi di aver inventato il comunismo a percentuale. Un giornalista può pensare quel che vuole del tentativo maoista, ma quando scrive un’occhiatina di verifica almeno a Internet la dovrebbe dare. Battista addirittura legge la famosa percentuale alla rovescia, tanto è offuscato.
Ieri infine su Liberazione Antonio Moscato imperversa basandosi sia sul volume di Short, che riflette senza troppe domande la versione del gruppo dirigente cinese attuale, sia su quello di John Halliday e Jung Chang, che perfino gli autori del «Libro nero sul comunismo» hanno definito fazioso, oltre che poco documentato. E non so se mi spiego.
Queste brave persone vedono letteralmente rosso se si parla di Mao, e in genere della temperie di quegli anni. Anche Rina Gagliardi si fustiga sui tempi. Non è la prima volta né sarà l’ultima. Per la maggior parte di essi il bisogno di sconfessare il proprio passato è diventato ossessione. Dovrebbero rivolgersi a un terapeuta. E i loro direttori, Ezio Mauro, Paolo Mieli e Piero Sansonetti, esigere un poco più di prudenza professionale.